22 dicembre 2007

Avvento

E' il tempo dell'attesa, della maturazione. L'Avvento liturgico si avvia al suo termine, mentre mia moglie ed io continueremo a vivere il nostro primo avvento familiare che terminerà a Pasqua. Ed è bello meditare su questa "convergenza parallela" tra tempo umano e tempo divino. E' bello aspettare Natale con la mano sulla liquida turbolenza della pancia di Chiara, ascoltando il silenzioso miracolo della vita scalpitante. C'è già, lo senti che c'è, lo vedi che c'è, ma ancora il tempo non è maturo. Attesa.
Quest'anno sono molto preso e non riesco a fare una poesia natalizia come quella dell'anno scorso. Anche se con queste poche righe, ci tengo però a farvi i miei auguri di cuore: che possiate anche voi sperimentare la trepidazione dell'attesa e la gioia dell'arrivo. E soprattutto, che la possiate condividere, con la fiducia si chi sa che "ciò che tarda arriverà".
PS: Per i maschietti gli auguri proseguono su Cose dell'andro-mondo.

01 dicembre 2007

Piezz 'e core

In una scuola elementare del sud d'Italia, due bambine litigano violentemente, una di esse aggredisce fisicamenete l'altra. La maestra interviene per separarle, prende la bambina più aggressiva e violenta e le rivolge un rimprovero molto secco rigurdante la violenza della sua reazione nei confronti della compagna. Nel pomeriggio, la madre di questa bambina telefona inviperita alla maestra: "Lei non si deve permettere di rimproverare mia figlia!" "Guardi signora che sua figlia era completamente fuori di sé e stava facendo del male alla compagna, andava fermata. Del resto, essendo la maestra, è mio compito..." "Non mi interessa il suo compito: se mia figlia si difende fa bene. Io mia figlia non la tocco nemmeno con un dito e sono io che le ho insegnato a farsi rispettare se qualcuno osa farle qualcosa. Se lei interviene ancora io la denuncio".
Non commento. Riporto solo alcuni stralci di un intervento di Silvia Bonino.
"Molti genitori manifestano difficoltà nel tradurre in pratica la fondamentale esigenza di porre delle regole ai figli e di chiederne il rispetto. [...] molti adulti trovano intollerabili le emozioni negative che nascono sia in loro che nel bambino quando a questi vengono poste delle regole. [...] In realtà questi conflitti non sono segno di cattiva relazione, ma sono momenti normali ed anzi necessari nello sviluppo. Essi aiutano il bambino a misurare se stesso, a costruire la propria sicurezza, a comprendere i vincoli del proprio agire e trovare strategie più creative per raggiungere i propri scopi, a costruire relazioni sociali positive. [...] Molti genitori vivono invece i momenti di conflitto con grande ansia e sensi di colpa, nell'erronea convinzione che la relazione con il bimbo debba sempre scorrere tranquilla, gioiosa a priva di asperità. [...] si stenta a riconoscere che l'azione educativa non è un susseguirsi ininterrotto di momenti idilliaci, come se la vita fosse un perpetuo spot pubblicitario o una favola in cui tutti i personaggi vivono sempre felici e contenti. Si tratta di una deformazione egocentrica, in cui l'adulto viene meno al proprio compito formativo e utilizza i bambini per compensare le proprie difficoltà, quando non le proprie carenze affettive".
(S. Bonino, "Genitori, regole, figli" in Psicologia contemporanea (204/2007), pp. 24-25)

23 novembre 2007

Blog raddoppiato!

Carissimi, vi comunico che ho appena dato vita ad un nuovo blog: Cose dell'andro-mondo.
Non spaventatevi: Counseling e dintorni continua (forte delle sue 400 visite mensili) e continuerà ad essere uno spazio di elaborazione di spunti a 360° sul benessere personale/counseling; ma volevo aprire un nuovo spazio più specifico su tematiche legate al mondo maschile e "Cose dell'andro-mondo" servirà proprio a questo.
Alla prossima!

15 novembre 2007

Il traguardo di Daniele

Nel mondo della formazione e del counseling si citano molto spesso storie ed esperienze prese dal mondo dello sport. Mi rendo conto che è una "casistica" molto ricca e forte ma, non avendo passioni sportive, non la padroneggio.
Ma ora posso rimediare per interposta persona... Ladies and gentlemen, ecco a voi il mio amico Daniele!
E' stato il mio compagno di stanza al Master ed ha appena coronato il suo sogno di correre per intero la
Maratona di New York. Sul suo blog ha tenuto il diario di questa idea che a molti può sembrare bislacca ma che vi invito a ripercorrere, post dopo post, fino alla sua splendida conclusione. Leggete almeno l'ultimo post dove racconta come è andata la sua esperienza con tanto di mini-video di commento. Guardatelo sorridere al traguardo, immedesimatevi nel suo passo, ora stanco, ora agile, ora trepidante.
Quella di Daniele è una lezione di vita, un esempio di cambiamento positivo, non potevo lascarmi sfuggire l'occasione e l'ho intervistato:

Parliamo di motivazione: cosa ti ha spinto a tentare un'impresa del genere?
Mi ha spinto la voglia di mettere alla prova me stesso su un terreno nuovo: la corsa. L’avevo sempre vista come uno sport molto faticoso e privo di quella carica di entusiasmo che possono dare altre attività quali il calcio, il basket, il tennis. Era un terreno nuovo per me e significava il dover assumere un impegno forte, che necessitava di costanza e resistenza. Una sfida ai miei limiti.

Nella tua preparazione hai incontrato delle diffcoltà fisiche ed emotive: come le hai affrontate?
La corsa prolungata è un mix di difficoltà fisiche ed emotive. Fisiche perché praticamente tutti i muscoli del corpo vengono sollecitati ed emotive perché richiede un forte controllo psicologico che eviti la noia e soprattutto permetta al fisico di non mollare nei momenti di maggior fatica. E per me, che non ero abituato a queste sollecitazioni, le difficoltà sono arrivate sia all’inizio della preparazione, anche quando i minutaggi erano molto ridotti, che negli ultimi mesi quando le uscite arrivavano a superare le due ore per arrivare fino a tre ore. Il migliorare la forza psicologica e la capacità di “tenere” è stato fondamentale. E su questo terreno il pensiero all’obiettivo finale è stato un elemento importantissimo: pensare che quello che si sta facendo è necessario per poter tagliare il traguardo della Maratona di New York è stata una spinta impareggiabile. Sulle difficoltà fisiche relative al mio ginocchio non mi dilungo, basta un’occhiata al blog e direi che ne ho parlato anche troppo…

Proviamo ad identificare le cose che più ti sono state d'aiuto nel coronare questo sogno: pensieri (cosa dicevi a te stesso, cosa pensavi di te, come ti immaginavi l'obiettivo, il traguardo), azioni (che comportamenti hai messo in atto, che scelte hai fatto), emozioni (quando? utili o negative? come le hai gestite?)
I pensieri erano rivolti principalmente allo striscione d’arrivo. Quasi in ogni uscita lunga mi ritrovavo inconsapevolmente ad immaginare il mio arrivo a Central Park. E pensavo che se uno come me, che in vita sua non aveva mai corso più di venti minuti, può arrivare in soli otto mesi, partendo da zero, a completare una maratona vuol dire che ogni cosa, se la si vuole, in qualche modo è raggiungibile. La maratona come parabola per una motivazione doppia in ogni ambito della vita.
Le azioni sono state semplicemente quelle di seguire attentamente una tabella. Prendere sul serio l’impegno e non trovare scuse con me stesso. Se quella è stata la scelta dovevo confermarne le conseguenze: mettere in essere un allenamento serio.
Negli otto mesi di preparazione ho vissuto ogni emozione positiva ed il suo contrario. La gioia per arrivare a completare settimana dopo settimana i piccoli traguardi, la rabbia per l’eccessiva fatica che provavo in certe uscite (quando invece credevo di aver raggiunto un miglior allenamento) e quando si è presentato il problema fisico, la paura di un incidente o di un infortunio (come poi è accaduto) che poteva far crollare il sogno. E per le emozioni il mio blog è stato uno strumento inaspettatamente efficace. Scrivevo quello che provavo e di volta in volta arrivavano visitatori che portavano il loro sostegno od incitamento. Non mi sarei mai aspettato che il blog diventasse così popolare e potesse dare la spinta che poi mi ha dato. Importante nella gestione delle emozioni è stato anche il fatto di poter talvolta fare allenamenti in compagnia. Condividere la fatica, scambiare due chiacchere correndo o impressioni sulla progressione della propria forma è stato sicuramente utile.

Dopo aver raggiunto il tuo traguardo cosa pensi di te stesso? è cambiata la tua immagine interiore?
L’ho scritto in diversi sms che ho mandato in risposta ad amici che mi chiedevano come era andata: nel post maratona mi sentivo una sorta di
Iron Man. E su questo ha influito anche la resistenza al dolore e la capacità di superare la difficoltà fisica relativa al problema al ginocchio. Mi sono sentito forte, psicologicamente determinato e capace di soffrire per provare poi emozioni positive impareggiabili. Volevo tagliare quel traguardo e l’ho raggiunto, la mia autostima ne ha sicuramente tratto vantaggio…

01 novembre 2007

"Ci cangia 'ddifrisca"

Se non siete salentini dovete prima sapere cosa significa "ddifriscu" (o "ddafriscu" o "ddefriscu" a seconda del paese d'origine). Immaginate un'estate torrida nel meridione d'italia, quando l'afa ti soffoca, il sole ti brucia e ogni movimento è causa di fatica e pesantezza. In una situazione del genere vuoi solo una cosa: "ddifriscare", che significa sì "rinfrescarsi", ma molto di più, perché parliamo di un ristoro riposante, un relax rigenerante. E' questo il senso di "ddifriscu".
Ora torniamo al proverbio salentino citato nel titolo. "Ci cangia ddifrisca", chi cambia rinfresca/ddifrisca, cioè: il cambiamento ti rigenera. Voglio dedicare questo proverbio a tutte le persone che incontro nei corsi di formazione e che, nonostante il grande desiderio di cambiamento, sono preda della disillusione. Amareggiate dagli insuccessi precedenti, bloccate dalle voci interiori svalutanti, spente da mille pressioni che rendono difficile ogni mossa. O semplicemente spaventate, perché cambiare significa comunque accettare una certa destabilizzazione e questo può farlo solo chi è sufficientemente consapevole delle proprie energie o incosciente o disperato.
Ma se siete spossati, soffocati, affaticati, non indugiate: godetevi il ristoro del cambiamento.
Ci cangia 'ddifrisca!

PS: Vi consiglio un interessante e motivante intervento di Steve Jobs: buona visione!

13 ottobre 2007

Chimiche lobotomie giovanili

"Ingoia questa pillola e non dovrai più urlare
si spegnerà ogni cosa magicamente
ti sentirai leggero come non mai, vedrai...
Occhi fissi e torbidi, lingua gonfia e tumida,
perenne anestesia...
Via tutti i tuoi incubi, via con tutti i sogni tuoi
perenne anestesia...
(Ustmamò, Lepre, 1993)


In uno dei miei primi post di circa un anno fa ("Mondo impasticcato"), avevo già espresso il mio parere sull'uso sempre più massiccio e diffuso di psicofarmaci. Mi ritrovo ora a parlarne sulla scia di una recente inchiesta de L'Espresso che rilancia l'allarme psicofarmaci tra le generazioni più giovani. A quanto già scritto e all'anorme tristezza che queste notizie mi provocano, aggiungo un'altra amara riflessione.

Mi dà fastidio la retorica de "i 'ggiovani che cambiano il mondo". Eppure credo che talvolta le radici delle spinte di miglioramento sociale stiano anche nella fisiologica maturazione di un'identità che vuole in qualche maniera proporsi come "altra", "diversa" rispetto all'esistente. Trovarsi con giovani generazioni chimicamente anestetizzate è uccidere il proprio futuro.

Massììì, forza ragazzi, continuiamo così, lobotomizziamoci tutti a suon di pasticche! Non è forse questo che ci chiedono? Smettiamola di rompere le scatole co 'sta storia del cambiamento!
Portiamo a compimento la sorte di una generazione che, pur di sfuggire agli incubi, ha deciso di rinunciare ai sogni.

28 settembre 2007

Domande su viandanti e navigatori

Mi piace leggere le cartine geografiche e orientarmi leggendo il territorio, ma confesso che se non fosse stato per il "navigatore" installato sul cellulare mi sarei perso nell'hinterland milanese alla ricerca della sede del cliente di turno. Leggo su internet che ora i navigatori sono diventati indispensabili e questo mi sembra metaforico dei nostri tempi.
Se alcune generazioni sono rimaste affascinate dalla vita "on the road", fino ad affermare che l'importante non è la méta, ma il viaggio in sé, torna evidentemente alla ribalta la necessità di un andare "da qualche parte", come ci ricordano i menestrelli Ligabue ("andare ve bene, però - a volte serve un motivo - un motivo-o-o...") e Fabi ("Non tutte le strade sono un percorso").
Dove stiamo andando? Come ci arriviamo? Se la vita è un cammino (secondo una metafora condivisa - per quel che mi risulta - da tutte le fedi/religioni), che méta stiamo perseguendo?
Stando alla diffusione così massiccia di navigatori, sembra che fatichiamo a trovare la nostra strada da soli e abbiamo bisogno di una voce che ci guidi passo per passo. Avere dei buoni maestri, dei compagni di strada, mi sembra necessario. Ma quanti di noi riescono ancora a fare "la propria strada"? Il rischio è, infatti, che qualcun altro decida per noi méta e itinerario (un navigatore, una ideologia, una moda, un partito, una religione, un partner o un genitore, ...). Il rischio è che qualcun altro decida per noi il senso del nostro andare, togliendoci, assieme alla paura di sbagliare strada, anche il gusto della responsabilità e della scoperta.
Cari viandanti, navigatori del web, buona strada. Come diceva Paolo Hendel: "Da dove veniamo? Dove andiamo? Ma soprattutto: ci basteranno i soldi per la benzina?"

10 settembre 2007

TV Counseling: "S.O.S. Tata"

Un consiglio per tutti i lettori del blog: non perdetevi "S.O.S.Tata" (la terza serie in onda su FoxLife il martedì sera, con varie repliche nei giorni successivi ma in alcuni periodi va anche su LA7). la mia trasmissione preferita (erano anni che non ne avevo una!).
Come forse saprete si tratta di una trasmissione (ingiustamente assimilata ai tanti reality-show) in cui famiglie con difficoltà educative chiedono l'intervento di una "tata" (in realtà sono delle pedagogiste esperte) che, una volta osservato l'ambiente familiare per due giorni, dà delle dritte per "raddrizzare" la situazione e gestire meglio il rapporto con i figli.
A parte alcune perdonabili "sbavature" (comunque ironiche) dovute al formati televisivo (il ridicolo "paradiso delle tate" dove i bimbi giocano felici, il look "signorina Rottermeier", la chiamata d'emergenza, il montaggio strappalacrime che accompagna il commiato), la trasmissione è veramente da guardare. Guardarla con gli occhi di un normale spettatore farà ridere, pensare e (spero) mettersi in gioco, confrontando i propri meccanismi educativi con quelli della famiglia in questione. Guardare "S.O.S. Tata" con gli occhi del counselor permette, invece, di esercitarsi nella lettura delle relazioni familiari, confrontandola magari con quella fatta dalla tata/pedagogista di turno (a mio avvio sono tutte bravissime, specie la più esperta, Lucia Rizzi). Ma non solo: dietro le semplici "regolette" e i feedback ai genitori (dati generalmente con grande magistrale assertività), si possono leggere in filigrana i grandi temi psicologici delle relazioni. Così, in una puntata potrete trovare il tema dell'autostima, in un'altra quella dei riconoscimenti, in un'altra ancora quello della comunicazione distonica, e poi quello della simbiosi, dell'identità, della fusione/separazione,... o magari tutti questi temi insieme, ma con una leggerezza ed una sintesi invidiabile (con due puntate ci farei interi corsi).
Per cui non chiamatemi il martedì sera dalle 21.00 in poi, sono sdivanato a ridere e riflettere guardando "S.O.S. Tata". Ho ancora pochi mesi per vedere la trasmissione con gli occhi analitici del counselor: la sto registrando per poterla rivedere ad aprile con quelli (più apprensivi) del papà...

08 luglio 2007

Compagni di scuola

Questa è una dedica, doverosa per la sua importanza.
Oggi è terminato il percorso triennale di formazione "Il Counseling e le relazioni d'aiuto" che ho frequentato presso il Centro Berne. Voglio ringraziare pubblicamente tutti i miei compagni di strada che hanno condiviso con me quest'esperienza entusiasmante, difficile, soprattutto rigenerante.
Grazie per quello che ci siamo donati, per lo scambio di idee, le collaborazioni, gli scazzi, le risate e tutto quello che ha reso possibile la nostra trasformazione in persone evidentemente migliori e, confido, più utili al mondo.
Grazie a chi ha iniziato tre anni fa, a chi si è aggiunto per strada, a chi, strada facendo, ha preso altre strade, ai docenti del Centro e a tutti coloro che ci ruotano attorno.
Alessandra, Claudio, Antonella, Grazia, Teresa, Egle, simona, Amelia, Eleonora, Chiara, Francesca, Paola, Elisabetta, Maria Giulia, Alberto, Debora, Silvia, Davide, Cristina, Giovanna, Chiara, Antonella, Giorgio, Giacomo, Dianora, Fabio, Alessandra, Anna, Michele, Consuelo, Lucia, Raffaella, ... Mi porto dentro un pezzetto della vostra vita.
Sì, è stato bello e so che, seppure in forme e tempi differenti, continuerà ad esserlo.
Un abbraccio ++

13 giugno 2007

L'uomo s-mascherato

In un libro di psicologia trovo un esercizio interessante: "Pensate alla vostra infanzia e ricordate il personaggio di fantasia che più colpiva all'epoca la vostra immaginazione e con il quale vi identificavate". In un lampo mi ritornano in mente i fumetti dei supereroi Marvel, improbabili uomini in calzamaglia dotati di strani poteri e coinvolti di mille avventure. Una parte di me è ancora lì, dentro quel mondo. "Super-eroi con super-problemi", sono stati chiamati, perchè, a differenza di alcuni personaggi a tutto tondo, l'idea vincente della squadra Marvel fu di creare personaggi che unissero ai propri incredibili poteri, delle vicende più "umane" (problemi in famiglia, incapacità di comunicare i propri sentimenti, difficoltà sul lavoro, emarginazione sociale, ecc.).
Mi piace allora riprendere questa idea come un'immagine di ciascuno di noi, preso dalle sue faccende quotidiane, ma al tempo stesso custode di energie incredibili che ci aiutano nelle nostre avventure quotidiane.
Ci siete anche voi? Che maschera portate? Che supereroe/supereroina siete? Quali superpoteri avete? Sapete rendervi invisibili in caso di pericolo come Sue dei Fantastici Quattro o siete come Hulk, dalla rabbia incontenibile e devastante? Tirate fuori le unghie come Wolverine o pensate come Spider-man che "da un grande potere deriva una grande responsabilità"? Siete un uomo di roccia dal cuore tenero come "La cosa" o siete tutt'uno con la natura come Tempesta? Avete affinato i vostri sensi come Dare Devil o siete come Iron-Man, difesi dal mondo esterno da una luccicante corazza? Avete un super-cervellone che compensa i vostri limiti fisici, come il dott. Xavier, o il vostro punto di forza è la flesssibilità portata all'estremo di Reed Richards, l'uomo-gomma?

Ciao a tutti
dal vostro Uomo Ragno

PS: Se volete saperne di più su psicologia e fumetti, potete andare su Psicofumetto, su Amazingcomics o su Psicopedagogika.

04 giugno 2007

L'identità negata

Ho appena terminato un bel libro consigliatomi da una blog-amica: "Creatura di sabbia" di Tahar Ben Jelloun. Narra la storia di una donna costretta dall'ambiente familiare a rinnegare la propria identità fisico-biologica e a spacciarsi per un maschio. Non entro nei dettagli di questo bel romanzo, di cui vi consiglio la lettura, ma ne prendo spunto per una breve riflessione sull'identità negata.
Protagonista della storia è A. cui viene proibita la fondamentale libertà di essere sé stessa. La sua storia è estrema, ma forme di negazione dell'identità (benché fortunatamente meno gravi) sono il pane quotidiano di molte persone. Ognuno di noi è un mix inscindibile di desideri, scelte, elementi biologici e pressioni esterne che, attraverso una continua negoziazione, definiscono la nostra identità. Quando questi fattori non sono in equilibrio e le pressioni culturali-ambientali prevaricano tutto il resto (nel caso del romanzo addirittura vengono cancellati i fattori biologici), il dolore diventa il pane quotidiano e la felicità un'utopia.
L'Analisi Transazionale riconosce nel messaggio "non essere te stesso", che riceviamo dal nostro ambiente familiare, una delle ingiunzioni più tragiche. Perché mina nel profondo la capacità di cogliere il proprio valore, di credere in se stessi. Difficile, infatti, che chi è cresciuto con questa ingiunzione riesca a superarla senza un cammino di psicoterapia. Ma come possiamo evitare di perpeutare questo messaggio? Qui la sfida è essenzialmente pedagogica: credere che i propri figli siano persone di valore, accettando le loro scelte, mettendosi in ascolto delle loro aspirazioni. Soprattutto evitare di riversare su di loro i nostri desideri frustrati. Essere persone serene, che hanno fatto pace con i propri conflitti, ci aiuterà a non cancellare la loro identità in nome di nostri fantasmi personali e a dar loro una chance in più per essere felici.

22 maggio 2007

Il gusto della sostenibilità

Per motivi di lavoro, ho avuto la possibilità di conoscere approfonditamente una realtà che mi aveva sempre incuriosito ma che avevo sempre seguito "a distanza". Sto parlando di Slow Food, cui dedico questo post per divulgare l'importanza del suo operato. Sin dall’intuizione originaria del fondatore, Carlo Petrini, Slow Food nasce con il preciso scopo di rivalutare la qualità dei cibi, nel recupero di un sistema produttivo, sociale ed economico messo in crisi dall’industrializzazione della produzione, dalla massificazione dei consumi e dalla omologazione del gusto e delle culture. Focalizzata originariamente sull’idea di “buono”, l’espressione di questi valori si è meglio esplicitata nel tempo, fino a giungere all’attuale “manifesto” codificato nelle tre parole “buono, giusto, pulito”. Secondo il movimento Slow Food il cibo, in tutte le sue accezioni, è così al cuore della vita umana che è necessario promuoverne l’aspetto qualitativo (“buono”), ma questo aspetto è inseparabile tanto dal sistema produttivo che lo genera e dal relativo impatto ambientale (“pulito”), quanto dal peso sociale di tale produzione (“giusto”). Ormai Slow Food è molto più che una semplice associazione, in quanto oltre all’aspetto associativo nazionale ed internazionale, contempla una casa editrice, un’Università riconosciuta dal MIUR, una Fondazione per la biodiversità, ecc.
Cosa c'entra Slow Food con questo blog? Secondo me tanto. Vivere meglio è possibile se sappiamo mangiare meglio, in ogni senso. Privilegiare cibi locali, prodotti con una filiera corta, è sia una questione di giustizia sociale che di sostenibilità ambientale che di qualità della propria vita. A tale proposito, è ormai chiaro che la qualità dei cibi è più determinante della predisposizione genetica nell'insorgere di malattie, anche gravissime (come evidenzia questo articolo scientifico inglese, ripreso in italiano, seppur un po' romanzato, da un commento di Jacopo Fo).
"L'uomo è ciò che mangia" diceva Feuerbach. La vita dell'umanità dipende da ciò che l'umanità deciderà di mangiare. La vita di ognuno di noi dipende da ciò che mangiamo.
Buon appetito.
PS: Firmate l'appello on-line di Slow Food sulla dichiarazione di origine geografica!
AGGIORNAMENTO 7.6.06: La campagna di raccolta firme ha dato i suoi risultati, viene mantenuto l'obbligo per la trasparenza in etichetta. Grazie a chi ha firmato. Se volete ancora firmare ancora, potete farlo per sostenere la battaglia che ora si sposta a livello europeo.

14 maggio 2007

Le perle di Ammaniti

"Come Dio comanda" di Niccolò Ammaniti è un romanzo tanto duro quanto eccezionale. Se siete molto sensibili ve lo sconsiglio, se riuscite a superare la sua "durezza" potreste scoprire delle perle. Io ne ho trovate almeno due, provo a condividerle.
Prima perla. E' una storia squallidissima, di personaggi sporchi, brutti, cattivi. E stupidi. Violenti, ladri, laidi, folli o semplicemente disperati, tutti i personaggi finiscono con l'attribuire a Dio l'origine delle proprie azioni.
Poveri uomini: incapaci di prendersi le responsabilità del proprio agire.
Ma anche povero Dio: tirato sempre in ballo per giustificare ogni nostra umana pazzia, ogni nostro fantasma interiore.
Seconda perla. In questa storia trovo bellissima la descrizione dell'ambiguo rapporto tra il padre e il figlio. Cristiano Zena ama suo padre. Che non è un bravo papà, non lo protegge, non lo aiuta, non gli è d'esempio. Il vero prototipo di "cattivo papà". E allora? Cristiano Zena ama suo padre perché sa che, per quanto distorto sia questo amore, è l'unico amore che suo padre sa dargli.
Nella cupa notte che fa da scena al romanzo, questa certezza del cuore apre l'unico bagliore di speranza. La consapevolezza di un amore. Nonostante tutto.

POSTILLA del 18.05, ore 22.10: Proprio ora apprendo che, dopo "Io non ho paura", Salvatores vuole fare un altro film da un romanzo di Ammaniti: proprio da "Come Dio comanda".

02 maggio 2007

Lettera a Gigino

Caro Gigino,in un post precedente ti ho tirato in ballo e so che aspetti ancora una risposta alla tua fatidica domanda "Ma che cosa è sto counseling e che cosa fa un counselor?". Avevo provato a risponderti ma non erano risposte che ti soddisfacevano: nella tua semplicità sei molto esigente. Ora, dopo mesi di ripensamenti e confronto con altri counselor in erba, ti scrivo questa lettera perché credo di essere arrivato ad una formulazione soddisfacente. Spero che la troverai semplice e al tempo stesso efficace, proprio come la volevi tu.
"Il counselor è un professionista che aiuta a capire ed affrontare quei problemi della vita quotidiana che ostacolano una buona realizzazione personale nelle relazioni con gli altri (nella coppia, in famiglia, sul lavoro, con gli amici, ecc.). Quando voglio migliorare la qualità del rapporto con gli altri, quando mi sento bloccato e ho bisogno di ritrovare energia o quando ho necessità di superare un'esperienza difficile, posso rivolgermi ad un counselor. Un percorso di counseling cerca di farmi prendere consapevolezza della situazione che vivo e a sbloccare le risorse interiori che possiedo per raggiungere i miei obiettivi di benessere".
Ecco, Gigino, questa è la definizione più semplice ed efficace che riesco a fare adesso. Che te ne pare? Aspetto una tua risposta.
A presto,
Francesco

13 aprile 2007

Aprile dolce dormire

Sarà per colpa del cognome che ho, ma sto riscoprendo la saggezza di questo proverbio. Le giornate si allungano, inizia il caldo, il metabolismo cambia, e il corpo ci chiede tempo per abituarsi, magari sonnecchiando un po' di più o prendendosela più comoda.
Mi ritengo abbastanza pigro da godermi sufficientemente la vita ma mi capita comunque di cascare nella trappola del "più veloce" e dell'affanno. Cominciano allora ad arrivare dei segnali fisiologici che sembrano dire: "Caro testone, smettila di correre e riposati un po' di più. Se non lo farai tu di tua volontà, sarò costretto a farlo io ricorrendo alle maniere forti, mettendoti a letto. Saluti e baci, Il tuo corpo". Credo che questo mesaggio arrivi un po' a tutti, anche se non tutti lo ascoltano, visto che conosco diverse persone capaci di trasformare anche le vacanze in occasioni di affanno organizzativo.
E allora riposiamoci.
Poltrire in ciabatte sulla poltroncina in giardino, per il gusto di respirare e sonnecchiare, senza avere per forza qualcosa da fare. Sfogliare un fumetto con curiosità e leggerezza, per il gusto di leggere e distrarsi, senza avere per forza qualcosa da imparare. Bighellonare con calma e senza meta, per il gusto di camminare, senza avere per forza un posto da raggiungere.
Riscopriamo l'ozio in un mondo che corre troppo per gustarsi la vita. Da questo sonno si risveglieranno le energie migliori.
.......zzzzzzzzz.......

02 aprile 2007

Persone di Spirito

Voglio fare un augurio pasquale: che possiamo essere persone "di Spirito". Capaci, cioè, di cogliere il gusto dell'esistenza, di ricercarne il giusto e coltivarne il bello. Senza fughe solitarie, nella difficile ma arricchente compagnia degli uomini. La fratellanza umana nasce da qui, da questa trascendenza che rende necessario esplorare la diversità del mondo raccontandone i colori, i suoni e le storie.
Lo Spirito non ha padroni, "soffia dove vuole", non si fa imbrigliare da una definizione univoca. Ce lo dicono gli stessi testi sacri nel cui nome si stanno scatenando in questi mesi tante lotte ideologiche con contorno di religione, che rischiano di esasperare le contrapposizioni più che ascoltare le diversità.
Invece una vita spirituale "seria" è ciò che può unire i credenti delle varie fedi e addirittura i credenti con i non credenti. Non nell'ottica di un trasognato ed edulcorato approccio sincretista, di spiritualità "a buon mercato". Ma nella voglia di aprirsi all'altro, prendendo "sul serio" la sua esperienza spirituale e porgendogli la propria come un dono, non come una clava.
Chiudo questo post con due citazioni. Anzitutto vi invito a leggere questo bellissimo scritto di Enzo Bianchi, che esprime ciò che voglio dire meglio di queste mie parole incerte. E poi voglio condividere con voi una "perla" del mio autore preferito, come augurio di una crescita spirituale per tutti gli uomini che si rivolgono al cielo "con la mano del credente e quella dell'incredulo": "La verità divina vuole essere implorata con entrambe le mani. A chi si rivolge a lei con la doppia preghiera del credente e dell’incredulo essa non si negherà. Della sua sapienza Dio dà all’uno ed all’altro, alla fede come all’incredulità, ma ad entrambe solo se la loro preghiera giunge a lui unita" (Franz Rosenzweig).

22 marzo 2007

La fantasmagorica vita di Marco

Vi racconto una storia vera, raccolta dalla mia frequentazione del magico mondo delle aziende. Marco lavora nell'Ufficio Risorse Umane di una grande azienda italiana di informatica. Un ingenuo osservatore esterno nota che c'è qualcosa che non va nel modo di lavorare di questa società. Marco, infatti, passa tutta la giornata a parlare prima con un responsabile e poi un un altro, con un capo e poi con il capo del suo capo. Nulla di realmente necessario dal punto di vista operativo, ma solo dal punto di vista "politico" cioè di mantenimento dei giochi di potere aziendali interni; e Marco ne è perfettamente consapevole. Alle 17.30, invece di uscire al termine della sua giornata, Marco si siede alla sua scrivania: "Finalmente ora posso lavorare un po' per bene!" Si concentra sul da fare e resta lì fino alle 20.00. Tutti i giorni. Durante la pausa pranzo, uno degli argomenti preferiti da Marco e dai suoi colleghi è quello di lamentarsi di quanto il lavoro invada la loro sfera privata, di quanto debbano sopportare quelle mogli che li vorrebbero un po' di più in casa. Giorno dopo giorno. Un'altra pausa, un altro caffè, un'altra lamentela. E tutto che resta uguale.
Cosa ci vedete in questa storia? Una azienda cattiva che opprime il dipendente? Una persona "debole" che non sa organizzarsi il lavoro e i tempi rimanendone vittima? Una coppia fragile in cui il lavoro serve per "coprire" un vuoto e avere un agente esterno da incolpare per il tempo che non ci si riesce a dare?
Ci sono tanti Marco e tante aziende che lavorano così: è in questi casi che si aprono le possibilità di sperimentare forme di counseling aziendale. Ad aziende così un serio percorso di counseling può ovviamente fare solo bene. Per la possibilità di ridare a Marco più maturità umana e professionale. Per la possibilità di dare all'azienda una risorsa più "produttiva" e motivata". Per la possibilità di dare maggior armonia all'equilibrio tra lavoro e vita privata.
Se incontrate Marco, ditegli di visitare questo blog!
NOTA TECNICA PER I LETTORI: per essere avvisati dei prossimi post, vi prego di iscrivervi al servizio automatico di notifica inserendo la vostra mail nella colonna accanto oppure di utilizzare la notifica via RSS. Grazie!

23 febbraio 2007

Fiocchi rosa, fiocchi blu

Sulla differenza più antica del mondo (uomini/donne) è stato detto tanto; di fatto è l'Argomento per eccellenza. E tutti, infatti, ne parliamo, non fosse altro che per riderci su, come fanno i comici di Zelig o i tormentoni via internet (di cui pubblico una divertente immagine come esempio).
Parlare di uomini e donne e delle loro differenze è un campo minato perché tocchiamo uno dei nodi più profondi della nostra identità. Ci stanno dentro aspetti biologici, culturali, educativi, psicologici, ...
Che femmine e maschi siano diversi è, grazie a Dio, una verità biologica. Dalle femministe più accese ai religiosi più conservatori, la differenza tra i sessi è sottolineata in maniera radicale per i motivi più diversi. Ed è ormai accettato da (quasi) tutti che la differenza biologica non può essere "neutra": avere o non avere un corpo che segue dei cicli e che si modifica al punto di accogliere un'altra creatura cui dà vita e nutrimento, è un fatto che certamente influisce sulla psiche, il modo di veder il mondo e di pensare. Ma appena si esce dall'ambito della fisologia, provando a "definire" in qualche maniera universale questa differenza e ci si addentra in questioni di identità, di cosa un uomo o una donna "dovrebbero" essere, entriamo in un campo minato e in ogni definizione sento puzza di bruciato. Così, ogni volta che sento dire frasi del tipo "è attenta alle emozioni come solo una donna sa essere" oppure "con il pragmatismo che è tipico degli uomini", entro in allarme, perché sento puzza di un luogo comune dietro l'angolo. O, ancora peggio, di una strumentalizzazione. Comunque di una limitazione del modo di essere dei concreti uomini e donne che calcano la scena di questo pianeta. Andiamo avanti con l'esempio preso da un classico luogo comune culturale: "L'uomo è forte, la donna sensibile". Generazioni cresciute a colpi di questa definizione semplicistica, ed eccoci davanti a generazioni di maschi che non si concendono il permesso di provare emozioni (perché piangere "è roba da femminucce", perché l'uomo "non deve chiedere mai"), e a donne considerate "mascoline" perché autonome e decise. Mi sembra evidente che ogni volta che diciamo che una donna dovrebbe essere sensibile "in quanto donna" stiamo dando un giudizio di condanna a tutte quelle donne che, dimostrando una maggior forza sono da considerarsi di fatto "un po' meno donne"; così come ogni volta che diciamo che un uomo vero è quello che segue la politica, stiamo dicendo, di fatto, che chi non la segue è "un po' meno maschio". Che il suo modo di essere non va bene: stiamo sacrificando la persona reale all'idea di ciò che "dovrebbbe essere".
Ovviamente tutto questo ha poi un riflesso sui ruoli di coppia, per non parlare del riflesso sulla vita della famiglia e sui ruoli educativi (ma di questo parleremo in un altro post).
La mia proposta? Pensare ad una persona nella sua completezza, per ciò che è (quindi compresa la sua identità sessuale biologica), ma non per come "dovrebbe essere" rispetto ad una qualsiasi presunta codificazione di ruoli sessuali "universali". Andando nel pratico, quindi, in una coppia, dividersi gli incarichi di casa e lavoro dovrebbe essere una elaborazione fatta in due, consapevolmente, frutto delle possibilità, delle capacità, magari anche delle abitudini, ma non del fatto che le donne hanno scritto nel dna come lavare i piatti, mentre gli uomini avrebbero scritto nel dna di non passare l'aspirapolvere o di stirare.
A questo punto, assalito dai sensi di colpa per mia moglie che stira mentre io faccio l'intellettualoide su internet,
non mi resta che chiedere: voi che ne pensate?
PS: Care lettrici del blog, è vero l'ho tirata per le lunghe... ma gli auguri ve li faccio lo stesso!

Tu chiamale, se vuoi,...

...emozioooniiiiii" cantava il Battistone nazionale.
È da un po' di anni che assistiamo ad una rivalutazione del mondo delle emozioni (anche a partire dai libri scritti da Gardner e Goleman). Dopo secoli in cui le emozioni sono state subite o temute, ci siamo accorti che sono un elemento fondamentale dell'esistenza umana. In un certo senso è una riscoperta perché per molti filosofi e per alcune tradizioni culturali non è così: l'uomo saggio sarebbe quello che sa distaccarsi dalle emozioni (o addirittura quello che non ne prova nessuna); lo stesso ideale di perfezione (o di divino) che molti di essi sostengono è a-emotivo (non così il Dio dell'ebraismo, che è un gran passionale). Ora invece ci diciamo che le emozioni sono importanti, che non vanno soffocate ma riconosciute e gestite come una parte importante di noi stessi. Ma, come tutte le cose dimenticate e poi riscoperte, segue spesso una fase di "moda", che banalizza le cose a furia di parlarne.
Resta il fatto che ancora non c'è una cultura matura e diffusa delle emozioni. Faccio un esempio citando una frase che a tutti è capitato di sentir dire da qualche amico: "Il mio difetto è che sono una persona emotiva". Ma che significa? Tutti siamo "emotivi", cioè tutti "proviamo emozioni" così come tutti respiriamo ma nessuno si sognerebbe di dire: "Il mio difetto è che sono una persona troppo respirante". Forse con quella frase vogliamo dire qualcosa di importante (magari "sono molto sensibile" oppure "sono una persona generalmente ansiosa" oppure "reagisco incontrollatamente"), ma non troviamo parole più appropriate per dirlo. E questo è significativo: perché il primo passo per una maturazione emotiva è proprio quello di saper riconoscere il proprio vissuto interiore "dando un nome" a ciò che "ci bolle nel sangue". Da qui si può iniziare poi a gestire le emozioni nella maniera più opportuna, cercando un'armonia con i propri pensieri, ideali ed obiettivi.
Riconoscere le emozioni in gioco è il passaggio chiave per poterne godere e viverle in profondità senza rinunciare ai loro vantaggi e alla loro energia e, al tempo stesso, senza essere “travolti” (noi e gli altri) da forze prima soffocate e poi incontrollate.
Riprendiamoci le emozioni. Gioia, delusione, rabbia, serenità, tristezza, paura,... viverle, riconoscerle, gestirle.
C'è un limite? Personalmente eviterei di "guidare come un pazzo a fari spenti nella notteee..."

10 febbraio 2007

Tiri in porta

Lo ammetto: non sono uno sportivo e in particolare non amo il calcio (uniche partite che vedo per intero: la Nazionale ai mondiali). Eppure la metafora sportiva ha un suo fascino, in particolare per quei momenti chiave (come un tiro in porta) che possono cambiare il corso dell'incontro. La vita ci pone davanti continuamente dei momenti chiave, decisivi come dei calci di rigore che possono regalarti un Mondiale. Tiro dopo tiro, la nostra esistenza si dipana, prendendo strade talvolta scelte, talaltra imprevedibili. Un mio amico ama "tormentarsi" con domande del tipo: "Cosa ne sarebbe stato di me se quella volta la palla fosse entrata? E se quell'altra volta non avessi battuto il portiere?" E' il tema delle "vite non vissute", che personalmente mi pongo poco, mentre rimane aperto il tema dell'importanza delle scelte di vita. A parte una fisologica e salutare percentuale di "casualità", i risultati della partita non sono il frutto della singola scelta (del singolo tiro), ma sono il frutto dei criteri che ti orientano nelle scelte e che fanno il tuo stile di gioco: "Nino non aver paura / di tirare un calcio di rigore / non è mica da questi particolari / che si giudica un giocatore / Un giocatore si vede dal coraggio / dall'altruismo, dalla fantasia..." (F. De Gregori)

23 gennaio 2007

Lascia o raddoppia?

Le domande sono potenti. Le domande sono pericolose. Fare la domanda giusta può significare la riuscita di un sogno, farne una sbagliata il crollo di un'esistenza.
La domanda che, nel piccolo della mia esperienza, ho trovato più forte e profonda, capace di sconvolgere l'interlocutore è: "Ma tu, cosa vuoi veramente?". A questa domanda si sollevano tutte le voci interne, la folla di desideri contrastanti, le identità multiple che lottano per la supremazia, per avere la meglio nei nostri conflitti interiori. Cosa vogliamo veramente? Quale progetto vogliamo realizzare, per quale idea ci impegniamo a lottare, per chi ci alziamo la mattina? E in questi casi non c'è l'aiuto del pubblico né quello da casa né l'opzione "50:50". La risposta sta a noi.
Cosa vogliamo veramente? Tic, tac, tic, tac... Il tempo scorre, il gong si avvicina: hai la risposta definitiva?
La accendiamo?

08 gennaio 2007

L'orecchio di Salomone

Ladies and gentleman, vi presento il re Salomone, l'uomo più saggio di tutti i tempi. Il suo segreto? Semplice: sa ascoltare. Era questo dono, infatti, che aveva chiesto in preghiera: "Donami, Signore, un cuore che ascolta". La saggezza, insomma, è una questione di ascolto. A pensarci bene, non è solo la saggezza, ma tutta la nostra vita ad essere legata all'ascolto. Dalla qualità dell’ascolto dipende la qualità delle relazioni. Tanto più di una relazione che vuole essere relazione d’aiuto, come il counseling. E' questo che un buon counselor fa: soprattutto ascolta. Il resto viene dopo.
Siamo sicuramente capaci di sentire, forse un po' meno capaci di ascoltare. L’ascolto ha bisogno di essere continuamente rinnovato, sostenuto, purificato. L’altro mi parla, comunica di sé in una maniera ampia, che comprende le parole ma va anche al di là di esse. Ascoltare senza accavallarsi, senza foga di controbattere; puramente ricettivi, senza dare per scontato ciò che l'altro mi dirà. Con la paziente fatica dell'umiltà, necessaria per prendere sul serio le parole che l'altro ci dona, senza incasellarle in automatico nei propri schemi. Buon ascolto!

PS: "Salomone" in ebraico significa "il pacifico": solo chi ascolta sa "fare" la pace.