23 febbraio 2007

Fiocchi rosa, fiocchi blu

Sulla differenza più antica del mondo (uomini/donne) è stato detto tanto; di fatto è l'Argomento per eccellenza. E tutti, infatti, ne parliamo, non fosse altro che per riderci su, come fanno i comici di Zelig o i tormentoni via internet (di cui pubblico una divertente immagine come esempio).
Parlare di uomini e donne e delle loro differenze è un campo minato perché tocchiamo uno dei nodi più profondi della nostra identità. Ci stanno dentro aspetti biologici, culturali, educativi, psicologici, ...
Che femmine e maschi siano diversi è, grazie a Dio, una verità biologica. Dalle femministe più accese ai religiosi più conservatori, la differenza tra i sessi è sottolineata in maniera radicale per i motivi più diversi. Ed è ormai accettato da (quasi) tutti che la differenza biologica non può essere "neutra": avere o non avere un corpo che segue dei cicli e che si modifica al punto di accogliere un'altra creatura cui dà vita e nutrimento, è un fatto che certamente influisce sulla psiche, il modo di veder il mondo e di pensare. Ma appena si esce dall'ambito della fisologia, provando a "definire" in qualche maniera universale questa differenza e ci si addentra in questioni di identità, di cosa un uomo o una donna "dovrebbero" essere, entriamo in un campo minato e in ogni definizione sento puzza di bruciato. Così, ogni volta che sento dire frasi del tipo "è attenta alle emozioni come solo una donna sa essere" oppure "con il pragmatismo che è tipico degli uomini", entro in allarme, perché sento puzza di un luogo comune dietro l'angolo. O, ancora peggio, di una strumentalizzazione. Comunque di una limitazione del modo di essere dei concreti uomini e donne che calcano la scena di questo pianeta. Andiamo avanti con l'esempio preso da un classico luogo comune culturale: "L'uomo è forte, la donna sensibile". Generazioni cresciute a colpi di questa definizione semplicistica, ed eccoci davanti a generazioni di maschi che non si concendono il permesso di provare emozioni (perché piangere "è roba da femminucce", perché l'uomo "non deve chiedere mai"), e a donne considerate "mascoline" perché autonome e decise. Mi sembra evidente che ogni volta che diciamo che una donna dovrebbe essere sensibile "in quanto donna" stiamo dando un giudizio di condanna a tutte quelle donne che, dimostrando una maggior forza sono da considerarsi di fatto "un po' meno donne"; così come ogni volta che diciamo che un uomo vero è quello che segue la politica, stiamo dicendo, di fatto, che chi non la segue è "un po' meno maschio". Che il suo modo di essere non va bene: stiamo sacrificando la persona reale all'idea di ciò che "dovrebbbe essere".
Ovviamente tutto questo ha poi un riflesso sui ruoli di coppia, per non parlare del riflesso sulla vita della famiglia e sui ruoli educativi (ma di questo parleremo in un altro post).
La mia proposta? Pensare ad una persona nella sua completezza, per ciò che è (quindi compresa la sua identità sessuale biologica), ma non per come "dovrebbe essere" rispetto ad una qualsiasi presunta codificazione di ruoli sessuali "universali". Andando nel pratico, quindi, in una coppia, dividersi gli incarichi di casa e lavoro dovrebbe essere una elaborazione fatta in due, consapevolmente, frutto delle possibilità, delle capacità, magari anche delle abitudini, ma non del fatto che le donne hanno scritto nel dna come lavare i piatti, mentre gli uomini avrebbero scritto nel dna di non passare l'aspirapolvere o di stirare.
A questo punto, assalito dai sensi di colpa per mia moglie che stira mentre io faccio l'intellettualoide su internet,
non mi resta che chiedere: voi che ne pensate?
PS: Care lettrici del blog, è vero l'ho tirata per le lunghe... ma gli auguri ve li faccio lo stesso!

Tu chiamale, se vuoi,...

...emozioooniiiiii" cantava il Battistone nazionale.
È da un po' di anni che assistiamo ad una rivalutazione del mondo delle emozioni (anche a partire dai libri scritti da Gardner e Goleman). Dopo secoli in cui le emozioni sono state subite o temute, ci siamo accorti che sono un elemento fondamentale dell'esistenza umana. In un certo senso è una riscoperta perché per molti filosofi e per alcune tradizioni culturali non è così: l'uomo saggio sarebbe quello che sa distaccarsi dalle emozioni (o addirittura quello che non ne prova nessuna); lo stesso ideale di perfezione (o di divino) che molti di essi sostengono è a-emotivo (non così il Dio dell'ebraismo, che è un gran passionale). Ora invece ci diciamo che le emozioni sono importanti, che non vanno soffocate ma riconosciute e gestite come una parte importante di noi stessi. Ma, come tutte le cose dimenticate e poi riscoperte, segue spesso una fase di "moda", che banalizza le cose a furia di parlarne.
Resta il fatto che ancora non c'è una cultura matura e diffusa delle emozioni. Faccio un esempio citando una frase che a tutti è capitato di sentir dire da qualche amico: "Il mio difetto è che sono una persona emotiva". Ma che significa? Tutti siamo "emotivi", cioè tutti "proviamo emozioni" così come tutti respiriamo ma nessuno si sognerebbe di dire: "Il mio difetto è che sono una persona troppo respirante". Forse con quella frase vogliamo dire qualcosa di importante (magari "sono molto sensibile" oppure "sono una persona generalmente ansiosa" oppure "reagisco incontrollatamente"), ma non troviamo parole più appropriate per dirlo. E questo è significativo: perché il primo passo per una maturazione emotiva è proprio quello di saper riconoscere il proprio vissuto interiore "dando un nome" a ciò che "ci bolle nel sangue". Da qui si può iniziare poi a gestire le emozioni nella maniera più opportuna, cercando un'armonia con i propri pensieri, ideali ed obiettivi.
Riconoscere le emozioni in gioco è il passaggio chiave per poterne godere e viverle in profondità senza rinunciare ai loro vantaggi e alla loro energia e, al tempo stesso, senza essere “travolti” (noi e gli altri) da forze prima soffocate e poi incontrollate.
Riprendiamoci le emozioni. Gioia, delusione, rabbia, serenità, tristezza, paura,... viverle, riconoscerle, gestirle.
C'è un limite? Personalmente eviterei di "guidare come un pazzo a fari spenti nella notteee..."

10 febbraio 2007

Tiri in porta

Lo ammetto: non sono uno sportivo e in particolare non amo il calcio (uniche partite che vedo per intero: la Nazionale ai mondiali). Eppure la metafora sportiva ha un suo fascino, in particolare per quei momenti chiave (come un tiro in porta) che possono cambiare il corso dell'incontro. La vita ci pone davanti continuamente dei momenti chiave, decisivi come dei calci di rigore che possono regalarti un Mondiale. Tiro dopo tiro, la nostra esistenza si dipana, prendendo strade talvolta scelte, talaltra imprevedibili. Un mio amico ama "tormentarsi" con domande del tipo: "Cosa ne sarebbe stato di me se quella volta la palla fosse entrata? E se quell'altra volta non avessi battuto il portiere?" E' il tema delle "vite non vissute", che personalmente mi pongo poco, mentre rimane aperto il tema dell'importanza delle scelte di vita. A parte una fisologica e salutare percentuale di "casualità", i risultati della partita non sono il frutto della singola scelta (del singolo tiro), ma sono il frutto dei criteri che ti orientano nelle scelte e che fanno il tuo stile di gioco: "Nino non aver paura / di tirare un calcio di rigore / non è mica da questi particolari / che si giudica un giocatore / Un giocatore si vede dal coraggio / dall'altruismo, dalla fantasia..." (F. De Gregori)