22 dicembre 2008

Natale con i tuoi: oltre il teatrino

Che ci piaccia o meno, il Natale è la festa dei ritrovi familiari. Che, sulla carta, dovrebbero essere occasioni di serenità e convivialità ed invece per molti sono l'ennesima riproposizione di stanchi, tristi, pietosi copioni. Avevamo sperato di ritrovarci a tavola con i familiari con l'intenzione sincera di un momento piacevole e ristoratore dagli affanni ed invece ci ritroviamo a dover sopportare discorsi finti, ad assistere alla scena ritrita in cui ognuno ri-recita la propria affezionatissima parte (genitore brontolone, fratello perfettino, moglie premurosa, figlio ribelle, ecc). E non si parla di quello che veramente pensiamo, sentiamo siamo: ripetiamo le frasi che ci lasciano nel nostro ruolo e non ci permettono di incontrare veramente l'altro da cuore a cuore. Ecco allora che le feste natalize diventano un supplizio da sopportare con il sorriso "meno finto possibile" che riusciamo a sfoderare per salvaguardare la forma apparente. E paradossalmente, tutto questo acccade proprio con le persone con cui (idealmente) ci potrebbe esssere il massimo della condivisione. Che peccato! Abbiam perso un'altra occasione per recuperare "qui ed ora" un pezzo di felicità. Eppure potrebbe non essere così. Anche se la difficoltà di cambiare le cose è direttamente proporzionale alla forza delle abitudini.
Cari lettori, eccovi allora i miei auguri: che possiate sperimentare negli incontri familiari di queste feste la possibilità di relazioni più sentite, scrostando la patina del già-visto e gustando la possibilità di incontri più autentici. Si può fare? Direi di sì: cosa abbiamo da perdere?
AUGURI!

11 dicembre 2008

Prendere o lasciare?

Riporto una citazione da Le ali e la brezza del teologo cattolico X. Thévenot (Ed. Qiqajon, Bose 2002, pp. 157-159).
"Il piacere, a causa della sua qualità paradossale, è oggetto di fascino e nel contempo di timore. Così non c’è da meravigliarsi troppo se spesso lo si vede sacralizzato, cioè impiegato come una realtà di inquietante estraneità, che certamente promette un mondo meraviglioso, ma nel contempo minaccia malessere o morte se si arriva ad avvicinarla troppo. E dal momento che il sacro viene troppo spesso confuso con il divino, è comprensibile che le religioni, e tra queste il cristianesimo, abbiamo sempre incontrato difficoltà a prendere posizione nei confronti del piacere. In realtà, la lettura della tradizione cristiana mostra che alcuni teologi del passato hanno tenuto discorsi molto equilibrati sui piaceri; ma infinitamente più numerosi sono stati coloro – anche tra i più grandi -, che hanno demonizzato il godimento, specie quando era di ordine sessuale. Le loro affermazioni suscitano un profondo disagio nel lettore di oggi. Come si è potuto ripetere per secoli affermazioni come questa di Origene: “lo Spirito santo non è presente al momento del compimento degli atti coniugali”? Come si è potuto nutrire una diffidenza così forte nei confronti dei gesti erotici tra gli sposi, e soprattutto del piacere dell’orgasmo? Una religione la cui convinzione centrale è che il Figlio di Dio abbia assunto la carne dell’uomo, in che modo e perché ha potuto invece favorire una negazione così generalizzata del corpo sessuato e dei suoi godimenti? Certo, è possibile cogliere l’intenzione che animava la maggior parte di quegli scritti della tradizione cristiana: evitare di idolatrare le varie forme di godimento e così lottare contro la “tirannia” alla quale può condurre una ricerca travolgente dei piaceri. Un’intenzione di questo tipo non ha certo perso la sua pertinenza. Infatti il godimento intenso ha come effetto un’uscita da se stessi. Esso dà all’individuo l’espressione di oltrepassare con una trasgressione i limiti della sua condizione umana. rischia di tagliarlo fuori dal suo rapporto con l’umile realtà quotidiana. Il corpo, invece di restare uno dei segni privilegiati del dono gratuito del Dio creatore, finisce per non rimandare che a se stesso. Ma se ci si ferma soltanto alla denuncia di questa possibilità idolatrica inerente al godimento, si dimentica la qualità paradossale del piacere, e si soccombe così a un’altra forma di idolatria, altrettanto grave: quella che attribuisce alla volontà la falsa impressione di potersi dominare in modo pieno. In realtà, nel momento stesso in cui è in estasi, il piacere è anche esperienza di abbandono, un “lasciare la presa”, un venir meno dell’autocontrollo. Proprio attraverso questa esperienza, esso costituisce per l’individuo un richiamo molto esistenziale alla sua condizione di creatura. Lo obbliga a prender coscienza che, per godere bene, bisogna accettare di affidarsi al proprio corpo e a quello del partner che provoca il desiderio; il che limita l’aspirazione spontanea a non dipendere da nessuno. Per questo, porsi come obiettivo il non provare più piacere è una falsa ascesi. Equivale a idolatrare la propria capacità di controllo sul mondo e sugli altri; in fin dei conti significa voler diventare come Dio".

05 dicembre 2008

Su emozioni ed empatia

E' vero, ultimamanete sto trascurando un po' i blog per una serie di coincidenze che mi stanno rendendo la vita un po' troppo affollata. Nell'attesa di rivolgermi ad un counselor che mi aiuti a rimettere un po' d'ordine, vi segnalo questo articolo sulle emozioni e l'empatia. Chi segue questi temi non ci troverà nulla di nuovo o sconvolgente, ma resta sempre interessante ribadire la potenza (spesso anche in positivo) di certi meccanismi emotivi che ci rendono la vita più bella ed interessante. Buona lettura e a presto!

08 novembre 2008

L'incomprensione

"Una delle cose più sconcertanti nell'abbandono o nella follia è dover chiedere aiuto a un altro. Dici "Sto male" e quello ti chiede "Cos'hai?". Ma tu non sai cos'hai, stai male e basta. Arriva il primo che cerca di capire perché stai male e, "naturalmente", è sempre "un mal di pancia", mai una cosa psichica. Mai. E' sempre perché fa male la testa, il torace,... se poi muori di crepacuore la gente non sa cos'è. E' questa la dannazione dell'uomo: l'incomprensione".
Alda Merini, testimonianza rilasciata al giornale "Ventiquattro - Magazine".

25 ottobre 2008

Filastrocca-counseling: Gianni Rodari

Gianni Rodari, un autore ancora troppo sottovalutato della letteratura italiana. La sua forma di scrittura semplice e giocosa ed il fatto che scrivesse "per i piccoli" continuano a relegarlo sullo scaffale della "letteratura per l'infanzia". Invece la sua opera variegata spazia dal componimento didattico al divertissement letterario, dalla rima "socialmente impegnata" all'intuizione puntuale sui processi psichici della socialità. Al centro di tutto la creatività, quindi la capacità di cambiare, crescere, innovare, in ogni senso. A chi voglia accostarsi a questo grande autore consiglio di partire dalla raccolta "I cinque libri" edita da Einaudi, impreziosita dai disegni di Bruno Munari (altro grande, di cui parleremo un'altra volta).
Ecco alcune delle mie filastrocche preferite, che uso spesso anche nelle aule di formazione.

PROVERBI

Dice un proverbio dei tempi andati: "Meglio soli che male accompagnati".
Io ne so uno piu’ bello assai: "In compagnia lontano vai".
Dice un proverbio, chissa’ perche’, "Chi fa da se’ fa per tre".
Da questo orecchio io non ci sento: "Chi ha cento amici fa per cento".
Dice un proverbio con la muffa: "Chi sta da solo non fa baruffa"
Questa io dico, è una bugia: "Se siamo in tanti, si fa allegria".

IL PAESE SENZA ERRORI
C'era una volta un uomo che andava per terra e per mare
in cerca del Paese Senza Errori.
Cammina e cammina, non faceva che camminare,
paesi ne vedeva di tutti i colori,
di lunghi, di larghi, di freddi, di caldi, di così così;
e se trovava un errore là ne trovava due qui.
Scoperto l'errore, ripigliava il fagotto
e ripartiva in quattro e quattr'otto.
C'erano paesi senz'acqua, paesi senza vino,
paesi senza paesi, perfino,
ma il Paese Senza Errori dove stava, dove stava?
Voi direte: era un brav'uomo, uno che cercava una bella cosa.
Scusate, però,non era meglio
se si fermava in un posto qualunque,
e di tutti quegli errori ne correggeva un po'?

I BRAVI SIGNORI
Un signore di Scandicci
buttava le castagne e mangiava i ricci.
Un suo amico di Lastra a Signa
buttava i pinoli e mangiava la pigna.
Un suo cugino di Prato
mangiava la carta stagnola e buttava il cioccolato.
Tanta gente non lo sa
e dunque non se ne cruccia:
la vita la butta via
e mangia soltanto la buccia.

ALLA VOLPE
Questo è il pergolato e questa è quell'uva
che la volpe della favola giudicò poco matura
perché stava troppo in alto.
Fate un salto, fatene un altro.
Se non ci arrivate, riprovate domattina,
vedrete che ogni giorno si avvicina il dolce frutto;
l'allenamento è tutto.

ALLA FORMICA
Chiedo scusa alla favola antica
se non mi piace l'avara formica.
Io sto dalla parte della cicala
che il più bel canto non vende, regala.

10 ottobre 2008

Gene e sregolatezza

Siamo nati così e non ci possiamo fare niente oppure siamo il frutto dell'esperienza e dell'educazione? Da quando l'uomo ha cercato di riflettere su se stesso e sul mondo, ponendosi domande sul senso, la lotta tra queste due correnti di pensiero è sempre stata molto accesa. Per molti il nostro modo di essere ("è così di carattere") è una specie di marchio genetico che nessuno può modificare, per cui una persona nata "col carattere incazzoso" è destinata ad esserlo per sempre, magari può imparare a controllarsi ma, come dice il proverbio, "Chi nasce tondo non muore quadrato". Dall'altra parte ci sono tutti coloro che, dando peso alla storia individuale o sociale di ognuno, vedrebbero quella stessa rabbia come un modo tra i tanti possibili di reagire al mondo esterno, modo che è stato appreso e quindi, almeno in alcuni casi, potrebbe essere cambiato. Ora, grazie agli studi sul cervello e lo sviluppo delle neuroscienze, sembra ormai chiaro che questa divisione netta tra fattori genetico-naturali e fattori culturali è superata. Si parla ormai di epigenetica. Le incredibili capacità plastiche di ri-modellamento delle reti neuronali, l'interazione coevolutiva organismo/ambiente ed altri fattori fanno ormai concludere che i fattori genetici diventano fattori culturali e i fattori culturali (stile di vita, alimentazione, modelli di pensiero, ecc.) si trasformano in materiale genetico che "ci entra dentro". Da una parte, quindi, si evitano le illusioni del volontarismo che nega il peso dell'eredità naturale su ognuno di noi; dall'altra resta sempre aperta la via del cambiamento personale che, se ben nutrito, può addirittura rimodellare il nostro corpo. Che ne deriva da tutto questo pistolotto? Che lo stile di vita che conduciamo è una cosa troppo importante che va scelta e ben curata. La qualità di quello che mangiamo, la qualità della musica che ascoltiamo o dei programmi che vediamo, ecc, non sono fattori accessori della nostra esistenza, ma ci entrano letteralmente e fisicamente "dentro". Quindi, chiunque voglia vivere meglio, non può dare la colpa al passato o al cromosoma del nonno che ci ha trasmesso la metereopatia. Non possiamo essere felici se ci nutriamo con la robaccia industriale comprata col chiodo fisso del risparmio senza qualità. Non possiamo essere persone "belle dentro" se il nostro spirito si nutre di reality-show e le nostre orecchie non sanno scegliere tra una allitterazione ricercata di Caparezza ed un verso idiota degli 883. Non è indifferente passare una serata in un locale la cui musica non permette neanche di parlarsi o a casa in compagnia di affetti sinceri, con un amico che porta la chitarra ed un altro che porta una bottiglia di quello buono. Vivere meglio è una scelta di vita.

03 settembre 2008

Uomini o caporali?

Vi sarà capitato di conoscere qualche persona che, anche al di fuori del contesto professionale, si porta dietro un modo di fare e di relazionarsi legato al suo ruolo. Magari sarà stato un militare che parla ai suoi figli come ad una truppa o di un insegnante che va a caccia dell'errore anche con il marito. Il ruolo ha travalicato il suo ambito funzionale di applicazione, diventando qualcosa che addirittura "struttura la persona". La potenza dei ruoli non va sottovalutata perchè rischia di cancellare la ricchezza dei rapporti, riducendo l'incontro tra due persone ad un copione tra due personaggi. Come se questo non fosse già abbastanza grave, c'è dell'altro.
C'è un famoso esperimento di psicologia sociale risalente ormai a quaranta anni fa, che ha messo in mostra in maniera evidente dei meccanismi interessanti proprio legati al ruolo. Si tratta del famoso e tanto discusso "Stanford Prison Experiment" condotto da Philip Zimbardo (ora raccontato per intero in P. Zimbardo, L'effetto Lucifero, Raffaello Cortina Editore, € 38,40 - un bel mattoncino di 700 pagine ma comunque scorrevole e piacevole da leggere se avete intresse per la psicologia).
Per studiare alcuni aspetti della vita carceraria, Zimbardo chiese a degli studenti di simulare la vita di prigione in un'ala dell'università di Stanford. I ruoli di guardia e prigioniero furono affidati a caso all'interno del gruppo di volontari, che venivano retribuiti per la loro disponibilità e che, da contratto, avrebbero potuto in qualsiasi momento ritirarsi dall'esperimento. Come andò a finire? Al sesto giorno l'esperimento fu interrotto per la situazione aberrante che si era creata, con le finte guardie che infliggevano ai finti detenuti dei realissimi maltrattamenti, travalicando il mandato della simulazione in una escalation agghiacciante di violenze fisiche e psichiche. L'analisi di Zimbardo sottolinea che non fu colpa "di qualche mela marcia, ma del cesto che fa marcire le mele". I volontari/guardie cioè, non erano "bastardi dentro" in origine, ma, influenzati dal contesto, fecero cose terribili perché ritenevano che quello fosse quanto richiesto dal loro ruolo (sebbene nessun organizzatore lo avesse chiesto e addirittura travalicando alcune regole del gioco).
Io trovo che l'insegnamento più forte di questo esperimento venga in realtà da chi impersonava i finti detenuti. Entrati completamente nella loro parte, in pochi istanti dimenticarono di essere all'interno della simulazione e, davanti ai soprusi, nessuno chiese di andarsene o di sospendere il gioco. Come mai? In quanto "detenuti" stavano al gioco al punto tale da essersi "rassegnati" come detenuti veri a ciò che le guardie facevano. Non vedevano più le possibilità di uscita (del resto, come ci insegnano altri contributi, una parte del nostro cervello non distingue tra finzione e realtà - è il motivo per cui ci commuoviamo vedendo un film). La prigione era nella loro mente e si chiamava "ruolo del detenuto", che impediva loro di vedere delle potenzialità delle possibilità di cambiamento o di miglioramento.
E noi? A quale ruolo/convinzione sacrifichiamo la nostra identità? Di quale ruolo siamo così prigionieri da non vedere possibilità di cambiamento che magari sono sotto i nostri occhi e non ce ne accorgiamo?


"L'Esperimento carcerrario di Stanford, che è cominciato come una prigione simbolica, è progressivamente diventato una prigione fin troppo reale nella mente dei detenuti e delle guardie. Quali sono le altre prigioni autoimposte che limitano le nostre libertà fondamentali? I disturbi nevrotici, un basso livello di autostima, la timidezza, il pregiudizio, la vergogna e l'eccessiva paura del terrorismo sono solo alcune delle chimere ce limitano la nostra potenziale libertà e felicità, accecando la capacità di valutare pienamente il mondo intorno a noi" (P. Zimbardo, L'effetto Lucifero, p. 28).

28 luglio 2008

Comunciazione di servizio: nuovo sito!

Ciao a tutti! Alcuni mi hanno chiesto che fine avessi fatto, visto che il blog non viene aggiornato da un po'. Oltre a motivi personali (avete mai fatto un trasloco? Se sì, allora mi avete capito...) ho dedicato le mie energie internettiane alla creazione di un nuovo sito personale. Venite a trovarmi su www.scaprile.it ! Non tutte le pagine sono complete, ma ormai manca veramente poco. Tranquilli, i blog proseguono, semplicemente avevo bisogno di uno spazio più "istituzionale" per motivi professionali, mentre i blog continueranno ad ospitare le mie riflessioni/provocazioni. A presto!

16 giugno 2008

Scuola, Adolescenti & Co.

Ho concluso da poco una bella collaborazione con un IPSIA nel Salento. Si è trattato di un percorso sulla motivazione all'apprendimento e le metodologie di studio, portato avanti con un gruppo di ragazzi di primo e secondo superiore. Sono contento di come sia andato, anche se non è stato facile: il confronto con gli adolescenti mi ha messo in discussione, era un po' che non lavoravo a stretto contatto con loro per un periodo così lungo (un mese e mezzo). Giunto al termine di questo percorso, sento il bsogno di mettere nero su bianco alcune riflessioni e di condividerle attraverso questo spazio.
All'inizio, ho avuto timore. Avevo lavorato in passato con adolescenti, nei gruppi giovanili parrocchiali mi sono fatto le ossa come animatore/formatore, ma era ormai dieci anni fa (come dire: due generazioni di differenza). Nel frattempo la mia vita è cambiata, mi sono abituato a lavorare per lo più più con gli adulti e nel frattempo ho perso la familiarità con il mondo dei sedicenni, i loro gusti, il loro linguaggio e mentalità. Come sarebbe andata?
Questo timore era inoltre alimentato da un altro filone di pensieri. Negli ultimi anni ho avuto modo di confrontarmi con molti educatori ed insegnanti, sentendo un crescente leit-motiv: "Le nuove generazioni sono ingestibili"; "I ragazzi di oggi non sanno stare in silenzio", ecc. Ascoltando queste frasi (e gli episodi annessi) mi sembrava di scorgervi qualcosa in più della semplice e ritrita scena dell'incomprensione generazionale. In effetti, anche io ho avuto l'impressione che, probabilmente perché sottoposti ad un bombaradamento sensoriale/multimediale molto forte, tra le nuove generazioni ci sia una certa difficoltà alla concentrazione e al silenzio. Mi chiedevo perciò: ce la farò ad essere efficace, a trovare un canale comunicativo adeguato, con questa "I-Pod generation"? Come sarà possibile farsi riconoscere in quanto "adulto significativo" da questi ragazzi?
Al termine del percorso, rielaborando come sono andate le cose, ecco cosa ne ho concluso:
1. Ascolto e cambiamento. Sono riuscito a stringere un buon rapporto con loro e a lavorare bene solo perché, attraverso un continuo esercizio di ascolto ed attenzione, ho rimesso in discussione le mie metodologie e ho ridefinito il percorso ed i linguaggi. I ragazzi mi hanno costretto a non dare nulla per scontato, spiazzandomi continuamente, per cui ho dovuto dare fondo (e mettere in pratica) tutte le mie conoscenze sui processi motivazionali, l'apprendimento, la relazione educativa, ecc.
2. La nudità. Con gli adolescenti, i ruoli istituzionali sembra non funzionino più. Ammesso che mai abbiano funzionato. Con loro i ruoli non funzionano "a monte", la credibilità ai loro occhi non te la dà un'etichetta. per cui il silenzio e l'attenzione non sono condizioni "a monte", ma frutto di un percorso. In realtà io credo che anche nel passato fosse così: ognuno di noi ha conosciuto professori/educatori che valevano e di cui si aveva un rispetto profondo, ed altri che non valevano... ma c'era una formalità maggiore e stavi in silenzio anche con il professore che, sotto sotto, ritenevi insignificante. Ora no. Sono saltate le maschere, nel bene e nel male. Hai guadagnato la fiducia? Ti seguono. Non te la sei guadagnata? Non fanno alcuno sforzo per nascondere quel che pensano, il ruolo non ti difende più, la copertura pietosa che poteva dare l'illusione che tutto andasse sufficientemente bene ("perché stanno in silenzio") non vale più, il re è nudo. E "nudi" allora bisogna andare verso di loro. Cari educatori, maestri, professori, ecc. che si può fare se non c'è più la corazza del ruolo a difenderci? "Essere persone di qualità": se non hai un tuo equilibrio interiore, ti fanno saltare.
3. Tempo, organizzazione, competenze. Quando, mettendoti alla prova attraverso le loro piccole/grandi provocazioni, avranno saggiato la tua tempra, allora seguiranno anche le tue regole. Questo processo è ovviamente lungo, ha bisogno di tempo per costruire relazioni autentiche. E credo che l'attuale organizzazione scolastica contrasti di fatto con tutto questo. Per avere più tempo e maggiore qualità relazionale, ci vogliono classi più piccole con meno professori e maggiore stabilità. Occorre cioè passare dal concetto di classe al concetto di gruppo di apprendimento. E, ovviamente, ci vorrebbero insegnanti con competenze differenti, che conoscano le dinamiche di gruppo, sappiano leggere le relazioni, abbiano una forte consapevolezza di sé... e magari siano seguiti da un counselor...

Grazie a L., M., R., D., i ragazzi che hanno seguito il percorso fino alla fine. Spero di aver dato loro un seme di miglioramento, così come loro lo hanno dato a me.

12 maggio 2008

Emozioni e società: la paura

Dopo aver frequentato uno dei loro seminari un po' di anni fa, seguo su internet le attività del Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei Conflitti che trovo molto interessanti e ben fatte. Voglio riportare un testo ripreso dalla loro ultima newsletter a firma di Daniele Novara ed intitolato: "La paura non costruisce sicurezza". Buona lettura.
"È piuttosto curioso scoprire come le scorse elezioni siano state dominate e vinte da chi ha saputo imporre il tema della sicurezza come questione socialmente rilevante. Dico curioso perché tutti i dati italiani vanno esattamente in direzione contraria.
Dagli anni ’50, i reati di violenza sono in diminuzione, al punto che l’Italia è il Paese europeo che ha ottenuto il più significativo abbattimento del numero di omicidi in percentuale rispetto alla popolazione dal 2000 a oggi (dati ISTAT). Non solo, anche dal punto di vista della cosiddetta copertura del territorio, l’Italia è il Paese europeo col maggior numero percentuale di forze dell’ordine rispetto alla popolazione. Probabilmente si potrebbero mettere più telecamere nei luoghi critici delle città, il che forse non impedirebbe comunque i furti. Io stesso sono stato derubato della mia borsa di lavoro in un Centro Congressi di un’importante banca milanese regolarmente presidiata da guardie private e da un numero non indifferente di telecamere che non hanno potuto fare nulla. Oppure si troveranno altri strumenti per dare l’impressione che i cittadini sono presidiati. Resta un problema: presidiati rispetto a chi? Il caso di Verona apre inquietanti considerazioni sulle figure dalle quali occorrerebbe difendersi. D’altra parte anche i reati di natura sessuale vengono compiuti per il 90% circa tra le mura domestiche.
Pure nel nostro piccolo “educativo” registriamo la totale sproporzione tra l’allarme bullismo e la sua reale quantificazione. L’ormai consolidata abitudine di utilizzare il termine prepotenza come sinonimo di bullismo ha fatto impennare le percentuali di bulli in una misura che definirla grottesca è già diplomatico (alcune sedicenti ricerche registrano una vittima di bullismo su due alle elementari). Resta da interrogarsi sui motivi per cui gli italiani sono così spaventati.
Nel frattempo, in attesa di una risposta, posso tranquillamente dire che è molto più efficace lavorare sulla gestione dei conflitti e sul rafforzamento comunitario piuttosto che sulla caccia ai presunti nemici. Così come ci riportano tantissimi studi psicosociali già degli anni ’60, è più difficile compiere un reato grave in una piazza frequentata che in una piazza deserta. La solitudine e l’isolamento provocano sia una sensazione di panico sia la possibilità di subire effettivamente reati, specie quelli al patrimonio. Ma se pensiamo alla violenza interpersonale, ad esempio nei contesti condominiali, dobbiamo prendere atto che non esiste la possibilità di creare il poliziotto familiare, né tantomeno quello di condominio, quanto creare le condizioni affinché i conflitti trovino dei luoghi dove poter essere esplicitati, affrontati ed eventualmente chiarificati. La comunità cresce ed impedisce il reato alla persona se sa creare una cultura della gestione pacifica e costruttiva dei conflitti piuttosto che una cultura dell’evitamento dei conflitti stessi che porta solo alla frustrazione e alla rabbia.
Spero pertanto che, terminata la campagna elettorale, si possa riprendere un discorso sulla sicurezza comune che tenga conto dei reali dati scientifici piuttosto che far leva sulle paure più o meno latenti che tutti noi comunque possediamo".

30 aprile 2008

Sfogo di un neo-papà


Ed eccoci qui, in tre! E' arrivata la piccola Sara con il suo carico di gioia, trepidazione e sconvolgimento di vita. In questi primi giorni la mia principale attività è quella di stare accanto a Chiara e di spupazzarmi la piccola. Sul fronte interno la fatica maggiore è la sopportazione: parentame e vicinato hanno iniziato la gara a chi la spara più grossa. Le candidature sono parecchie, si va da consigli musicali ("I bambini devono piangere urlando altrimenti non si sviluppano le corde vocali") a pareri nutrizionali ("La mamma non deve mangiare pesce altrimenti le spine vanno nel latte materno") a preziosissime indicazioni sanitarie ("I bambini vanno lavati raramente" oppure "Le coliche sono causate dall'acqua calda del bagnetto"). Ma la più grossa che finora mi è toccato sentire è stata... "Non prendere in braccio la bambina altrimenti si vizia". Questa mi fa proprio ribollire il sangue! Ma che cosa ne sapete? Noi esseri umani, soprattutto nella prima fase della nostra vita, abbiamo bisogno come il pane di riconoscimenti, abbracci e coccole che dicano "Sì, ci sei, sei ok, ti voglio bene, hai il diritto di esistere e di essere felice ed io sono qui per te". Quando questo messaggio di fondo sarà passato, allora si potrà abituare la persona a modalità diverse e gradualmente più "contenute" di riconoscimenti, perché ormai il messaggio di fondo di amore/accettazione incondizionata è assodato. E' proprio quando salta questo meccanismo e questo messaggio di fondo non passa che il bambino sarà sempre alla ricerca di continue conferme/riconoscimenti (ed ecco il ricatto affettivo); oppure non li richiederà più perché è arrivato all'istintiva e triste conclusione di non valere e di non meritarseli (è più facile fare il genitore in queste condizioni, vero?).
Se proprio non vi convince questa teoria (che in realtà è un'acquisizione ormai definitiva della psicologia, se proprio non ci arrivate col buon senso) almeno cambiate terminologia, per esempio utilizzando l'espressione "abitudini scomode": perché mai dovete attribuire un "vizio" ad un inerme neonato? Non vi rendete conto che dietro questa parola c'è un giudizio morale di condanna? Dove sta la sua colpa?
Ma che vita triste avete fatto ed avete fatto fare ai vostri figli? Mi dispiace per voi, io per mia figlia seguirò un'altra strada.
PS: Sto riportando altri pensieri sull'esperienza della paternità sull'altro mio blog "Cose dell'andro-mondo"

16 aprile 2008

Vieni avanti creativo!

L'immagine "genio e sregolatezza" che comunemente si attribuisce agli artisti non rende un buon servizio alla nostra capacità creativa. Nella mentalità comune una persona creativa è spesso intesa come svagata, magari un po' eccentrica, lontana dal "buon senso comune" (ed è triste vedere come alcuni ragazzotti provinciali con sogni di gloria si adeguino a questa immagine ottocentesca atteggiandosi a bohemien perché gli altri si accorgano di "quanto è artista"). Le riflessioni più mature sulla creatività, invece, ci portano tutte verso un percorso ben definito:
1. Creatività è riuscire a generare qualcosa di nuovo attraverso un processo che affronta la fatica della "diversità", dell'eterogeneità. Essere creativi significa tenere più cose diverse insieme, è per questo che creare è bello ma anche faticoso.
2. Si arriva alla creatività solo attraverso l'esplorazione di sentieri ameni caratterizzati dall'insolito, dall'imprevisto, dal "perchè no?", dalla divergenza, dall'errore, dal cazzeggio (tutti elementi riconducibili al "pensiero laterale" -- fase generativa-divergente).
3. Eppure divergere, immaginare ed esplorare non basta: creare richiede la fatica dell'impegno della realizzazione attraverso un processo molto simile al lavoro di un artigiano che lima, smussa e rifinisce (fase realizzativa-convergente).
4. La creatività si può imparare/allenare esercitandosi a fare i divergenti e i convergenti. Ognuno di noi per carattere e/o educazione tende a privilegiare uno di questi aspetti, ma per essere creativo dovrà imparere ad integrare l'aspetto mancante. Finché mancherà questa pluralità saremo solo delle persone immaginifiche o dei bravi esecutori ma non dei creativi.
Ed ora, preso dall'esaltazione per essere diventato papà della splendida Sara, vi sparo un leggero pillolone filosofico-teologico.
La forma più alta della creatività umana non sta nell'arte ma nel generare vita attraverso (guarda caso) la diversità (fosse anche meramente biologica) maschile/femminile. L'esperienza della generazione di vita nuova attraverso la pluralità/diversità è ciò che rende gli esseri umani partecipi della "Creazione perenne", di quel processo creativo di Dio che non è più qualcosa accaduto "in quel tempo", ma qualcosa che riguarda continuamente l'oggi.
E contemplando in noi creature la possibilità di essere creative (nel senso di co-creatrici) non mi resta che concludere: che grande creativo il nostro Creatore!

28 marzo 2008

La buca nella strada



Autobiografia in cinque brevi capitoli
di Portia Nelson

Capitolo primo
Cammino lungo una strada.
C'è una buca profonda nel marciapiede.
Ci casco dentro.
Sono perduto, non posso farci nulla, non è colpa mia.
Ci metto una vita per uscirne.


Capitolo secondo
Cammino lungo la stessa strada.
C'è una buca profonda nel marciapiede.
Faccio finta che non ci sia.
Ci casco dentro.
Non posso credere di essere ancora nello stesso posto.
Ma non è colpa mia.
Mi ci vuole un sacco di tempo per uscirne.

Capitolo terzo
Cammino lungo la stessa strada.
C'è una buca profonda nel marciapiede.
La vedo benissimo.
Ci casco dentro di nuovo; è un'abitudine.
Ma i miei occhi sono aperti: so dove sono.
È colpa mia.
Ne esco immediatamente.

Capitolo quarto
Cammino lungo la stessa strada.
C'è una buca profonda nel marciapiede.
Ci cammino intorno.

Capitolo quinto
Me ne vado per un'altra strada.

07 marzo 2008

Spot counseling: la réclame che non ti aspetti

Bisogna ammetterlo: quei furbastri dei pubblicitari sono davvero molto bravi a leggere l'essere umano e i suoi bisogni. E a racchiudere in poche, semplici parole, una suggestione di senso che fa risuonare l'ascoltatore. Parliamo dei famosi "slogan" pubblicitari (che nel linguaggio tecnico sono in realtà identificati come "claim" o "pay-off").
Ma che c'azzeccano le pubblicità con il counseling? Apparentemente nulla, ma, come dicevo, diversi spot riescono spesso ad esprimere in poche parole delle cose profonde ed interessanti sui bisogni dell'essere umano, così mi sono divertito a raccogliere quelli a mio avviso più "socialmente utili". Se non fossero stati inventati per vendere una saponetta in più, sarebbero un vero "Bignami" del counseling. Eccoli qui:
"Perché io valgo" (Cosmetici): autostima;
"La vita è fatta di priorità" (Alimentari): scelte, autonomia e valori;
"Prenditi cura di te" (cosmetici): self-care, autostima;
"100% flessibilità" (Automobili): cambiamento;
"Just do it" (Abbigliamento): decisione e cambiamento;
"Provare per credere" (Arredamento): fiducia, decisione e cambiamento.
Ve ne vengono in mente altri?

Per concludere, riporto una "vision aziendale" di una marca di abbigliamento per ragazzi:
- Liberare le proprie idee
- Accettare le differenze
- Trovare il proprio equilibrio
- Agire con il cuore
- Aprirsi al mondo
- Stare meglio per crescere
- Dare il meglio di sé
- Raggiungere i propri obiettivi
- Vivere con ottimismo
- Realizzare i propri sogni
- Rispettare il pianeta
- Costruire la pace
Se avessi voluto sintetizzare in dodici punti la mia visione del mondo ed i miei ideali non avrei saputo fare di meglio. A questo punto però nasce un problema. C'è un trentatreenne che si riconosce nella visione del mondo di una marca di abbigliamento infantile: o fallirà l'azienda perché è andata fuori-target o devo tornare d'urgenza dal mio terapeuta per riportargli questi evidenti segnali di "sindrome di Peter Pan"...

17 febbraio 2008

Viaggi distruzione

Nei miei ameni spostamenti in giro per l'Italia mi capita di osservare le persone e le situazioni. Non ho grandi aneddoti da raccontare, ma alcune situazioni mi colpiscono, mi sembrano emblematiche. Ve ne racconto due, esponendo i fatti senza aggiungere troppi commenti e sfidandovi a un piccolo giochino modello "Settimana Enigmistica": trovate l'errore in ogni scena.
Scena n° 1.
Siamo sul pullman che collega l'aereoporto alla stazione. Quando salgo e mi accomodo, una classe di scuola media è già sul pullman, sono in viaggio anche loro accompagnati da due professoresse, occupano metà pullman. I ragazzi sono nel massimo silenzio, sembra quasi irreale: ognuno ha occhi solo sul proprio cellulare su cui digita come un forsennato. Solo quattro ragazzi fanno una cosa diversa: approfittando di quattro sedili disposti a salottino, fanno una partita a carte. Giocano divertendosi e scambiandosi battute, ma lo fanno in maniera tranquilla, non danno alcun fastidio a noi altri passeggeri. Dopo qualche istante, una delle due professoresse, viene verso il fondo del pullman, tralascia i ragazzi impegnati con i cellulari e si avvicina ai giocatori di carte: "Ora basta, smettetela, state facendo rumore!".
Scena n°2.
Eurostar Lecce-Milano. In una città pugliese sale una mamma "modello velina" con al seguito la bimba di due anni, anche loro dirette a Milano. La mamma trascorre il viaggio tra numerose chiamate e un lettura approfondita degli ultimi imperdibili numeri di "Vogue" e "Cosmopolitan". La bimba nel frattempo si annoia. Non ha con sé nessun giochino e il viaggio è lungo. Inizia a curiosare qui e là, vuol sgambettare, si innervosisce. La madre alterna momenti di seccata attenzione ("Vediamo quando la smetterai di dar fastidio", "E va bene facciamo un giro di là ma poi basta") a momenti di rabbia telefonica ("Fare un viaggio con questa bambina è veramente impossibile, vorrei vedere te!") a momenti di baby-parking ("Ora basta, stattene qui buona per un po'!"). Azzardo un minimo di relazione: "Ciao bella bambina, non ce lo hai un giochino?". Interviene la mamma-velina: "Purtroppo no: la nonna si è dimenticata!". Per farla breve, va a finire così: la bambina cotta dal viaggio si addormenta sul pavimento del treno (!!!) e la mamma, dopo un primo tentativo di spostamento andato male, la lascia lì a dormire per circa due ore. Mentre continua a leggere le sue preziose riviste. (Se non ci credete ho anche una foto ma non la metto on-line per la privacy).
Chi crede di aver trovato l'errore scriva in redazione: ricchi premi vi aspettano.

02 febbraio 2008

Il tesoro nascosto

Nell'ultimo post ho fatto una breve riflessione sulle difficoltà e le situazioni difficili che si nascondono "sotto la crosta" della normalità. Ma l'esplorazione non finisce qui: se vogliamo scavare ancora un po' ed arrivare al fondo vero, ecco che un tesoro ci aspetta.
Con un ascolto attento e paziente è possibile accorgersi dell'immenso tesoro sepolto che gli uomini si portano dentro. Sono ricchezze incredibili: idee inespresse, forze sopite, progetti interrotti, energie tanto potenti quanto generalmente accantonate.
Non voglio alimentare facili ricette psiconewagiste della serie "la risposta è dentro di te" ("epperò è sbagliata" risponderebbe il buon Guzzanti di "Quelo"). Ma credo profondamente nella positività originaria degli uomini, nella buona stoffa con cui le fibre dell'essere umano sono intessute (qualcuno direbbe "a immagine e somiglianza di Dio"). La difficoltà semmai sta nel trovare il coraggio per far affiorare il tesoro e la strada per riuscire a valorizzarlo.
E' qui che la sistuazione si fa più difficile, perché entra in gioco la responsabilità. Responsabilità significa che ho in mano il potere di fare e cambiare, ma l'esito non è certo: si può sbagliare. Sta a noi scegliere ed agire, ma il risultato non è assicurato, perché siamo limitati e non abbiamo tutte le soluzioni in tasca. Sembra allora essere questo il motivo principale del fatto che poi il tesoro rimanga nel cassetto: chi non fa non sbaglia, come dice il vecchio proverbio. Qui il tema si fa ancora più intrigante, perché ci porta alla questione del fallire/ripartire, ma ne riparleremo in seguito. Per ora fermiamoci qui, nella contemplazione ammirata del tesoro nascosto che ci portiamo dentro e che facciamo così tanta fatica a riconoscere (in noi stessi o negli altri).
Con un sottofondo musicale che vi consiglio:
"Per ogni giorno piovuto dal cielo
e capitato bene o male a terra
con la tua guerra che non c'è chi perde, né però chi vince...
Per ogni amore sbagliato d'un pelo
oppure perso giocandolo a morra
o attenso in coda col tuo numerino e sei il solo a non spingere...
Per ogni ora passata in campo
e non ti sporchi neanche la maglietta
ci vuol sudore e un minimo di cuore se non vuoi lo zero a zero...
Per ogni passo strisciato o stanco
e nel frattempo tutto il resto e fretta
e la scelta è: o resti fuori o corri per davvero...
Io solo che quando tocca a te... tocca a te!"
(Ligabue, Quando tocca a te - ASCOLTA TUTTO)

07 gennaio 2008

Sotto la crosta

Più mi addentro nell'attività di counseling e più mi rendo conto di quanta fragilità umana e sofferenza ci siano in giro. Soprattutto sto notando come problemi seri di relazione, di coppia, di famiglia, vengano nascosti dietro una crosta di apparente normalità o, per meglio dire, di negazione. E basta un piccolo colpettino perché la vernice salti lasciando intravedere le crepe. Come la polvere messa sotto il tappeto, il problema non scompare, è sempre lì. Come un fuoco sotto la cenere, cova in attesa di recare danni maggiori in futuro.
La vera forza non sta nell'incassare sempre e comunque facendo buon viso a cattivo gioco, ma sta nell'ammettere "io ho un problema", riconoscerlo e cercare la strada migliore per gestirlo.
Il counseling è una delle possibilità/risorse attivabili, ma non è certo l'unica strada percorribile. Amici o associazioni, familiari o terapeuti, servizi istituzionali o di volontariato: il mondo fornisce una forte gamma di possibilità di ripresa. Una volta scartate le opzioni non adatte e quelle palesemente deleterie (santoni e cartomanti) sta solo a noi attivarci.
3, 2, 1, ... VIA!