03 settembre 2008

Uomini o caporali?

Vi sarà capitato di conoscere qualche persona che, anche al di fuori del contesto professionale, si porta dietro un modo di fare e di relazionarsi legato al suo ruolo. Magari sarà stato un militare che parla ai suoi figli come ad una truppa o di un insegnante che va a caccia dell'errore anche con il marito. Il ruolo ha travalicato il suo ambito funzionale di applicazione, diventando qualcosa che addirittura "struttura la persona". La potenza dei ruoli non va sottovalutata perchè rischia di cancellare la ricchezza dei rapporti, riducendo l'incontro tra due persone ad un copione tra due personaggi. Come se questo non fosse già abbastanza grave, c'è dell'altro.
C'è un famoso esperimento di psicologia sociale risalente ormai a quaranta anni fa, che ha messo in mostra in maniera evidente dei meccanismi interessanti proprio legati al ruolo. Si tratta del famoso e tanto discusso "Stanford Prison Experiment" condotto da Philip Zimbardo (ora raccontato per intero in P. Zimbardo, L'effetto Lucifero, Raffaello Cortina Editore, € 38,40 - un bel mattoncino di 700 pagine ma comunque scorrevole e piacevole da leggere se avete intresse per la psicologia).
Per studiare alcuni aspetti della vita carceraria, Zimbardo chiese a degli studenti di simulare la vita di prigione in un'ala dell'università di Stanford. I ruoli di guardia e prigioniero furono affidati a caso all'interno del gruppo di volontari, che venivano retribuiti per la loro disponibilità e che, da contratto, avrebbero potuto in qualsiasi momento ritirarsi dall'esperimento. Come andò a finire? Al sesto giorno l'esperimento fu interrotto per la situazione aberrante che si era creata, con le finte guardie che infliggevano ai finti detenuti dei realissimi maltrattamenti, travalicando il mandato della simulazione in una escalation agghiacciante di violenze fisiche e psichiche. L'analisi di Zimbardo sottolinea che non fu colpa "di qualche mela marcia, ma del cesto che fa marcire le mele". I volontari/guardie cioè, non erano "bastardi dentro" in origine, ma, influenzati dal contesto, fecero cose terribili perché ritenevano che quello fosse quanto richiesto dal loro ruolo (sebbene nessun organizzatore lo avesse chiesto e addirittura travalicando alcune regole del gioco).
Io trovo che l'insegnamento più forte di questo esperimento venga in realtà da chi impersonava i finti detenuti. Entrati completamente nella loro parte, in pochi istanti dimenticarono di essere all'interno della simulazione e, davanti ai soprusi, nessuno chiese di andarsene o di sospendere il gioco. Come mai? In quanto "detenuti" stavano al gioco al punto tale da essersi "rassegnati" come detenuti veri a ciò che le guardie facevano. Non vedevano più le possibilità di uscita (del resto, come ci insegnano altri contributi, una parte del nostro cervello non distingue tra finzione e realtà - è il motivo per cui ci commuoviamo vedendo un film). La prigione era nella loro mente e si chiamava "ruolo del detenuto", che impediva loro di vedere delle potenzialità delle possibilità di cambiamento o di miglioramento.
E noi? A quale ruolo/convinzione sacrifichiamo la nostra identità? Di quale ruolo siamo così prigionieri da non vedere possibilità di cambiamento che magari sono sotto i nostri occhi e non ce ne accorgiamo?


"L'Esperimento carcerrario di Stanford, che è cominciato come una prigione simbolica, è progressivamente diventato una prigione fin troppo reale nella mente dei detenuti e delle guardie. Quali sono le altre prigioni autoimposte che limitano le nostre libertà fondamentali? I disturbi nevrotici, un basso livello di autostima, la timidezza, il pregiudizio, la vergogna e l'eccessiva paura del terrorismo sono solo alcune delle chimere ce limitano la nostra potenziale libertà e felicità, accecando la capacità di valutare pienamente il mondo intorno a noi" (P. Zimbardo, L'effetto Lucifero, p. 28).