Chiara è una ragazza che lavora
presso un centro servizi con un contratto a termine. Allo scadere del
contratto, l'ultimo giorno di lavoro si aspetta di avere un colloquio
con qualcuno dei suoi responsabili per sapere se il suo contratto è
rinnovato o meno. Nessuno sa nulla, il super-capo non è in sede e
lei rientra a casa con un grande punto interrogativo: ma domani mi
presento o no al lavoro? Il fatto che nessuno le abbia detto nulla le
fa sospettare di non essere confermata, ma alcuni suoi colleghi le
dicono che in azienda in questo periodo c'è un po' di caos, quindi
di non dare per scontato nulla, è bene attendere una notizia
ufficiale. Durante la strada del rientro, Chiara riceve un SMS sul
cellulare: “Ciao. Il tuo contratto scade oggi”. Mittente sconosciuto, ma deve essere un numero della
società di recruiting che l'ha selezionata e le ha procurato il
lavoro. Chiara richiama: “Se ho ben capito non sono piaciuta e
quindi non mi prendono, giusto?” “A noi non risulta che non sia
piaciuta, sappiamo solo che la società non ci ha fatto sapere nulla,
quindi lo prendiamo per un no, succede”. “Ok, capisco. Ma mi
permetta una considerazione: non c'era proprio nessuno (né tra di voi né in azienda) disposto a
dirmelo di persona? Inviare un SMS non mi sembra il massimo della
correttezza...”. La risposta è stata: “Si ritenga fortunata ad
aver ricevuto almeno l'SMS. In genere non mandiamo neanche quello”.
La storia che vi ho raccontato è
accaduta davvero e la trovo un esempio di una terribile
de-umanizzazione del lavoro ai nostri giorni. E di storie come questa
ne raccolgo tante nella mia attività di counseling professionale e
formatore, ultimamente sempre di più. Abitualmente tendo a
distinguere, a prendere le lamentele con un certo distacco. Di casi
isolati di “maleducazione” (se così possiamo chiamarla) ce ne
sono sempre stati e ce ne saranno, non si può generalizzare né
tanto meno scandalizzarsi. Eppure, rispetto a quello che ho visto
anche solo una decina di ani fa, quando ho iniziato a girare per le
aziende, mi sembra assistere ad un inesorabile e progressivo
deterioramento della qualità delle relazioni umane sui luoghi di
lavoro. E quando chiedo al maltrattato di turno “Cosa ti hanno
risposto?” la risposta è sempre: “Mi han detto che siamo in
tempi di crisi quindi occorre incassare, non andare per il sottile,
accontentarsi di quel che c'è”.
Io credo che la frase “c'è la crisi”
si ormai abusata e utilizzata a sproposito per coprire qualunque
schifezza senza prendersi le proprie responsabilità. La cura delle
relazioni umane non è un lusso che ci si può permettere solo
fintanto che le cose vanno bene. Una persona resta tale “nella
buona e nella cattiva sorte” e, crisi o non crisi, i nostri
interlocutori hanno diritto ad un “minimo sindacale di dignità”.
Questo significa, ad esempio, dare una risposta, magari anche
negativa (non si può sempre dire sì, evidentemente). Ma rispondere.
E rispondere guardando in faccia il nostro interlocutore.
Mi metto allora nei panni di uno
qualsiasi dei vari responsabili/capi di Chiara. Ognuno di essi si è
trincerato dietro un “non spetta a me” per togliersi
dell'imbarazzo di dire ad una persona “Ci dispiace, non sarai
assunta”. La domanda che ora faccio loro non riguarda più la
dignità negata di Chiara, ma riguarda la loro stessa
identità/qualità di professionisti: Dove è la vostra dignità?
Negando a lei una risposta, state rinunciando alla vostra stessa
umanità, vi state appiattendo a semplici rotelle di un ingranaggio
organizzativo. Vi comportate in maniera de-umanizzata: ne siete
contenti? Non avete nostalgia di riprendervi un pezzo di "rischio umano" e di
soddisfazione, di orgoglio di far bene il vostro lavoro?
Per riconoscere dignità agli altri,
occorre la voglia di riscoprirsi umani, noi per primi.
A me sembra che ce ne sia un gran
bisogno: ne avremo il coraggio?
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