11 aprile 2013

"Essere umani" al lavoro


Chiara è una ragazza che lavora presso un centro servizi con un contratto a termine. Allo scadere del contratto, l'ultimo giorno di lavoro si aspetta di avere un colloquio con qualcuno dei suoi responsabili per sapere se il suo contratto è rinnovato o meno. Nessuno sa nulla, il super-capo non è in sede e lei rientra a casa con un grande punto interrogativo: ma domani mi presento o no al lavoro? Il fatto che nessuno le abbia detto nulla le fa sospettare di non essere confermata, ma alcuni suoi colleghi le dicono che in azienda in questo periodo c'è un po' di caos, quindi di non dare per scontato nulla, è bene attendere una notizia ufficiale. Durante la strada del rientro, Chiara riceve un SMS sul cellulare: “Ciao. Il tuo contratto scade oggi”. Mittente sconosciuto, ma deve essere un numero della società di recruiting che l'ha selezionata e le ha procurato il lavoro. Chiara richiama: “Se ho ben capito non sono piaciuta e quindi non mi prendono, giusto?” “A noi non risulta che non sia piaciuta, sappiamo solo che la società non ci ha fatto sapere nulla, quindi lo prendiamo per un no, succede”. “Ok, capisco. Ma mi permetta una considerazione: non c'era proprio nessuno (né tra di voi né in azienda) disposto a dirmelo di persona? Inviare un SMS non mi sembra il massimo della correttezza...”. La risposta è stata: “Si ritenga fortunata ad aver ricevuto almeno l'SMS. In genere non mandiamo neanche quello”.

La storia che vi ho raccontato è accaduta davvero e la trovo un esempio di una terribile de-umanizzazione del lavoro ai nostri giorni. E di storie come questa ne raccolgo tante nella mia attività di counseling professionale e formatore, ultimamente sempre di più. Abitualmente tendo a distinguere, a prendere le lamentele con un certo distacco. Di casi isolati di “maleducazione” (se così possiamo chiamarla) ce ne sono sempre stati e ce ne saranno, non si può generalizzare né tanto meno scandalizzarsi. Eppure, rispetto a quello che ho visto anche solo una decina di ani fa, quando ho iniziato a girare per le aziende, mi sembra assistere ad un inesorabile e progressivo deterioramento della qualità delle relazioni umane sui luoghi di lavoro. E quando chiedo al maltrattato di turno “Cosa ti hanno risposto?” la risposta è sempre: “Mi han detto che siamo in tempi di crisi quindi occorre incassare, non andare per il sottile, accontentarsi di quel che c'è”.

Io credo che la frase “c'è la crisi” si ormai abusata e utilizzata a sproposito per coprire qualunque schifezza senza prendersi le proprie responsabilità. La cura delle relazioni umane non è un lusso che ci si può permettere solo fintanto che le cose vanno bene. Una persona resta tale “nella buona e nella cattiva sorte” e, crisi o non crisi, i nostri interlocutori hanno diritto ad un “minimo sindacale di dignità”. Questo significa, ad esempio, dare una risposta, magari anche negativa (non si può sempre dire sì, evidentemente). Ma rispondere. E rispondere guardando in faccia il nostro interlocutore.
Mi metto allora nei panni di uno qualsiasi dei vari responsabili/capi di Chiara. Ognuno di essi si è trincerato dietro un “non spetta a me” per togliersi dell'imbarazzo di dire ad una persona “Ci dispiace, non sarai assunta”. La domanda che ora faccio loro non riguarda più la dignità negata di Chiara, ma riguarda la loro stessa identità/qualità di professionisti: Dove è la vostra dignità? Negando a lei una risposta, state rinunciando alla vostra stessa umanità, vi state appiattendo a semplici rotelle di un ingranaggio organizzativo. Vi comportate in maniera de-umanizzata: ne siete contenti? Non avete nostalgia di riprendervi un pezzo di "rischio umano" e di soddisfazione, di orgoglio di far bene il  vostro lavoro?

Per riconoscere dignità agli altri, occorre la voglia di riscoprirsi umani, noi per primi.
A me sembra che ce ne sia un gran bisogno: ne avremo il coraggio?

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