Non è bello sentirsi esclusi, etichettati, emarginati. Fa male sperimentare sulla propria pelle le ferite della vittima.
Ma questo non basta, purtroppo, a riconoscere come fratelli tutti gli altri esclusi, etichettati, emarginati. Essere vittima, non sfocia automaticamente nella solidarietà verso le altre vittime.
E resto incredulo nel vedere quante persone vittime di pregiudizi e discriminazioni a loro volta discriminino ed attacchino qualcun altro sulla base di altri pregiudizi.
Il meridionale che, emigrato al nord, se la prende con i nuovi migranti "che rubano il lavoro a noi del posto".
La donna schiavizzata che alimenta l'odio verso i gay.
Il gay che insulta il barbone.
Il disoccupato che gioisce del fallimento della bottega dei cinesi.
Il ragazzo disabile che si unisce al movimento neonazista e si scaglia contro gli ebrei e tutte quelle categorie di persone con cui avrebbe diviso la tragica sorte se si fosse trovato nei primi anni '40 ad Auschwitz o Birkenau.
Ho provato a ricostruire il monologo interiore di chi la pensa così, e me lo sono immaginato in questo modo:
"Non sono più io lo sfigato! Ce n'è un altro più sfigato di me!
Finalmente ho trovato il modo di smettere di essere vittima:
diventare a mia volta il carnefice di qualcuno".
Insomma, il desiderio di non soffrire porta al sogno di stare finalmente sul carro dei "forti". Diventare, a mia volta, il persecutore di qualcuno mi inebria di un senso di potere, di "rivincita" nei confronti della vita.
"Lascio pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe a capo all'in giù, nella mano di un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. (…) e dava loro di fiere scosse, e faceva sbalzare quelle teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura".
(A. Manzoni, I Promessi sposi, cap. 3).
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