Uno dei temi più ricorrenti nella formazione alle relazioni in
ambito professionale è quello della fiducia. Non si può parlare di
leadership, di team, di delega, di comunicazione, di negoziazione
senza richiamare prima o poi nel tema della fiducia (fiducia da dare,
da mantenere, da ispirare,...).
Fiducia intesa come capacità di accettare che ci sia un pezzo del
nostro mondo che dipende da qualcun altro e non solo da noi. Come
capacità di capire che c'è qualcosa (o qualcuno...) su cui non
possiamo avere il controllo e che ci richiede un affidamento, un
“darci”, pur sapendo che potremmo subire conseguenze impreviste
(o addirittura spiacevoli) da questo nostro gesto.
La fiducia implica quindi un rischio. Non posso mai avere la
certezza assoluta che l'altro (collega, collaboratore, cliente...)
usi in maniera corretta e costruttiva quello spazio in cui io non
entro. E, del resto, il vecchio proverbio “fidarsi è bene, non
fidarsi è meglio” ci ricorda che le “fregature” sono sempre
dietro l'angolo, invitandoci al sospetto, al controllo, a non farci
abbindolare. E la distinzione tra persone “degne di fiducia” o
truffatori è una capacità assolutamente necessaria per la nostra
sopravvivenza: se un ladro vuole farla franca, per prima cosa
cercherà di non sembrare un ladro, inspirandomi fiducia per farmi
abbassare la guardia e meglio manipolarmi.
Ecco allora che l'autodifesa prende il sopravvento, portando ad
aumentare i livelli di controllo sulle informazioni, sugli altri, sul
mondo, per abbattere il rischio di brutte sorprese. Ma non possiamo
controllare sempre e controllare tutto, non è umanamente possibile,
in senso generale e soprattutto in un mondo complesso come quello
odierno, fatto di scambi ed interdipendenze.
Così ci fidiamo. A volte non per “slancio morale” o grandi
ideali, ma per il “semplice” fatto di non poter controllare la
fonte e la veridicità di ogni singola informazione e per il fatto di
doverci affidare a competenze diverse e maggiori delle nostre per
sopravvivere. Ci fidiamo del fatto che sia la Terra a girare intorno
al Sole; ci fidiamo del fatto che il signore in divisa che districava
il traffico non fosse in impostore; ci fidiamo perché non abbiamo
competenze né strumenti per controllare le competenze del pilota che
guida il nostro aereo o del magazziniere del supermercato da cui ci
serviamo. La vita umana non è letteralmente possibile dubitando in
continuazione del lavoro altrui e anche i più paranoici o
“complottisti” tra di noi, prima o poi si “arrendono” alla
fiducia.
Quello che possiamo fare, soprattutto in ambito professionale, è
passare da una forma di “fiducia ingenua” ed acritica ad una
forma di fiducia “adulta” che, basandosi sulla trasparenza e la
reciprocità, possa minimizzare (non eliminare) i rischi.
Accanto a questo, c'è un'altra cosa che possiamo fare. Riguarda
una sorta di “scelta esistenziale” che, ancor prima di tradursi
in gesti concreti, ci chiede un cambiamento nell'approccio di base
alle relazioni. Potremmo iniziare a vedere la fiducia non solo come
un “triste dovere” legato alla nostra impotenza ma come qualcosa
di positivo che ci apre, ci fa evolvere, maturare e, perché no,
vivere meglio. Siccome non posso far tutto io “sono costretto” a
fidarmi e così imparo a delegare e a gestire meglio il mio tempo.
Siccome non posso sapere tutto io “sono costretto” a chiedere
agli altri, a far spazio alle loro competenze e ad imparare qualcosa
che prima non sapevo. Siccome non posso raggiungere un risultato da
solo, “sono costretto” a collaborare e a scoprire che accanto a
me ci sono persone valide con cui, guarda un po', talvolta è anche
bello lavorare...
Fidarsi è uscire dalla chiusura in sé, costruire legàmi,
scoprendo che siamo capaci di sopravvivere a qualche fregatura pur di
non perdere l'arricchimento umano che essa ci porta.
(Lo stesso post è disponibile come PDF a questo link)
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