"Il piacere, a causa della sua qualità paradossale, è oggetto di fascino e nel contempo di timore. Così non c’è da meravigliarsi troppo se spesso lo si vede sacralizzato, cioè impiegato come una realtà di inquietante estraneità, che certamente promette un mondo meraviglioso, ma nel contempo minaccia malessere o morte se si arriva ad avvicinarla troppo. E dal momento che il sacro viene troppo spesso confuso con il divino, è comprensibile che le religioni, e tra queste il cristianesimo, abbiamo sempre incontrato difficoltà a prendere posizione nei confronti del piacere. In realtà, la lettura della tradizione cristiana mostra che alcuni teologi del passato hanno tenuto discorsi molto equilibrati sui piaceri; ma infinitamente più numerosi sono stati coloro – anche tra i più grandi -, che hanno demonizzato il godimento, specie quando era di ordine sessuale. Le loro affermazioni suscitano un profondo disagio nel lettore di oggi. Come si è potuto ripetere per secoli affermazioni come questa di Origene: “lo Spirito santo non è presente al momento del compimento degli atti coniugali”? Come si è potuto nutrire una diffidenza così forte nei confronti dei gesti erotici tra gli sposi, e soprattutto del piacere dell’orgasmo? Una religione la cui convinzione centrale è che il Figlio di Dio abbia assunto la carne dell’uomo, in che modo e perché ha potuto invece favorire una negazione così generalizzata del corpo sessuato e dei suoi godimenti? Certo, è possibile cogliere l’intenzione che animava la maggior parte di quegli scritti della tradizione cristiana: evitare di idolatrare le varie forme di godimento e così lottare contro la “tirannia” alla quale può condurre una ricerca travolgente dei piaceri. Un’intenzione di questo tipo non ha certo perso la sua pertinenza. Infatti il godimento intenso ha come effetto un’uscita da se stessi. Esso dà all’individuo l’espressione di oltrepassare con una trasgressione i limiti della sua condizione umana. rischia di tagliarlo fuori dal suo rapporto con l’umile realtà quotidiana. Il corpo, invece di restare uno dei segni privilegiati del dono gratuito del Dio creatore, finisce per non rimandare che a se stesso. Ma se ci si ferma soltanto alla denuncia di questa possibilità idolatrica inerente al godimento, si dimentica la qualità paradossale del piacere, e si soccombe così a un’altra forma di idolatria, altrettanto grave: quella che attribuisce alla volontà la falsa impressione di potersi dominare in modo pieno. In realtà, nel momento stesso in cui è in estasi, il piacere è anche esperienza di abbandono, un “lasciare la presa”, un venir meno dell’autocontrollo. Proprio attraverso questa esperienza, esso costituisce per l’individuo un richiamo molto esistenziale alla sua condizione di creatura. Lo obbliga a prender coscienza che, per godere bene, bisogna accettare di affidarsi al proprio corpo e a quello del partner che provoca il desiderio; il che limita l’aspirazione spontanea a non dipendere da nessuno. Per questo, porsi come obiettivo il non provare più piacere è una falsa ascesi. Equivale a idolatrare la propria capacità di controllo sul mondo e sugli altri; in fin dei conti significa voler diventare come Dio".
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